Pieni di opinioni e vuoti d’umano: il diritto e lo scambio

Violenza privata universale

Non riusciamo, perché non vogliamo, a scindere l’elemento fattuale e contestuale da quello universale. Non riusciamo, perché non vogliamo, estinguere il fuoco dello stomaco per comprendere razionalmente il corso delle situazioni così come sono. Non riusciamo, perché non vogliamo, a parlare di diritto in maniera universale e incondizionata, e continuiamo a parlarne come si trattasse di un mero do ut des. Ci sono colpi alla pancia che pubblicamente non possono essere condivisi: ciò che è condivisibile è ciò che viene dalla testa. E su questo non possono esserci dubbi.

Se pensiamo a ogni immane tragedia che accade (efferati omicidi, violenze di vario genere su chiunque), non possiamo che provare, sentire rabbia e profondo dolore. Come minimo, la vendetta immediata è la prima reazione che ci viene davanti. Peccato che già dai tempi del barbarico editto del barbaro Rotari (643 d.C.) la vendetta violenta e personale viene vista come contraria alla società civile (tra l’altro all’epoca fondamentalmente piccola, ristretta, rispetto alla popolazione: ma non stiamo qui a fare una lezione di Storia). Voglio dire, non è che un sentimento tipico dell’uomo può essere estirpato dall’uomo stesso, ma deve essere estirpato dalla società. Non ci può essere impedito di provare quello che proviamo, ma non si deve rendere questo sentimento qualcosa di socialmente affermato. La rabbia che provo io e la mia volontà di vendetta (in quanto singolo e in quanto somma di singoli che non è mai un tutto: ognuno potrebbe provare la stessa cosa, ma sarebbe sempre qualcosa di individualistico) non possono essere regola civile, legge di Stato. L’unico giudizio “sentimentale” e “individuale” che aspira, che deve aspirare alla condivisione universale è il giudizio di gusto (Kant docet): per il resto, dobbiamo renderci conto che la nostra vita pratica non può basarsi su elementi derivanti dal particolare, ma bisogna seguire una legge universale, magari priva di un vero e proprio contenuto (sempre tenendo di fronte a noi l’abitudinario di Königsberg e la sua seconda Critica). Siamo costretti, per il quieto vivere, a regolare la nostra vita sulla base della ragione, la quale può essere definita come quel buon senso che, direbbe Cartesio, col suo piglio un po’ paraculo un po’ ironico, è la cosa al mondo meglio distribuita.

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Già l’idea di discutere di una tragedia in questi termini fa un po’ senso, ma quello che posso dire è che non possiamo permetterci di seguire i nostri più umani e animali istinti tralasciando la nostra altrettanto umana ragione: in questo senso, il concetto di limite ci serve, eccome! Il limite ci rende chiaro quale è e deve essere il nostro territorio, uno spazio ben delineato oltre il quale non è che non si possa andare, ma se ci si spostasse lì saremmo nel caos individualistico, soggettivista ed emozionale più assoluto (la paura di Hobbes insomma). Ognuno sarebbe il guardiano, così ognuno sarebbe il portatore di giustizia.

Ma, in questi termini, l’universale giustizia diverrebbe un semplice agire da sé, individuale, sulla base del personale modo di vedere le cose. Pensiamo un attimo a una situazione paradossale in un contesto di questo tipo. Se qualcuno camminando mi urtasse (e quest’urto è un torto), in una società di quelle sopra descritte, io ci riderei su e ritornerei a passeggiare. Ma se lo stesso qualcuno urtasse qualcun altro e la reazione fosse diversa, cioè l’urtato, colui il quale ha subito un torto che sente essere gravissimo, lo uccidesse, chi potrebbe dire: “Ha sbagliato a ucciderlo”, se veramente per l’urtato quella fu un offesa che meritava, per giustizia, la morte? Non essendoci condivisione, vista la situazione di completo soggettivismo, nulla si potrebbe dire: nessuno può comprendere a fondo quello che un altro sente – la gravità dell’offesa secondo l’urtato. Dunque, è chiaro, è necessaria la condivisione dell’idea di giustizia. Ma, non solo la condivisione dell’idea: serve anche un organo che eserciti la funzione del giudicare cosa sia giusto fare e cosa no, e non arbitrariamente, ma sulla base di qualcosa di condiviso universalmente. In effetti, funziona così. E funziona anche quando e se sentiamo che qualcosa sia ingiusto, che una decisione del giudice sia ingiusta (forse i tre gradi di giudizio non sono poi così male ecco…). Ci serve, appellarci alla giustizia, per vivere in pace.

Quello che cerco di esprimere è: ma vi sembra normale andare avanti a istigare violenza e distorcere l’idea di giustizia e di diritto? Il diritto non è, appunto, qualcosa di guadagnato, per cui ce l’ho solo se faccio determinate cose (si tratta dei diritti umani in primis, ma non soltanto). Il diritto è e basta, ce l’ho e basta. Senza confronto e paragone con nessun altro caso. Per cui, posso essere anche il peggior assassino al mondo, se ho il diritto alla difesa, ce l’ho punto. Per quanto questa cosa possa far sussultare qualcuno. Fa male sentire queste cose, ma fa male alla pancia. Bisogna capire che le regole, l’ordine, il limite, il diritto non sono elementi superflui, ma costituiscono la vita nella società.

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È ovvio, se non banale, reputare assolutamente sbagliato divulgare messaggi che istighino alla violenza, alla giustizia de sé e così via per dovere di cronaca – eppure al giorno d’oggi è bene ribadirlo. È assolutamente giusta e comprensibile la reazione personale, carica di rancore, odio, rabbia e dolore di chi ha subito il crimine, ma mai si può andare oltre e pretendere che questi rancore, odio, rabbia e dolore diventino sociali, causando ciò reazioni violente velate da giustificazioni morali. Possiamo comprendere questi sentimenti, magari anche nel nostro intimo condividerli, ma non possiamo pretendere che la nostra società (che è qualcosa di diverso rispetto al mero affiancamento di individui) si regga su di essi. Per cui, quando sentiamo queste notizie, stiamo un attimino calmi e riflettiamo, ché è bello lasciarsi andare all’animalità nostra, ma non so quanto veramente ognuno e tutti potremmo guadagnarci. Almeno, io non voglio rischiare di venire ucciso se urto uno per strada, ecco…

A. Ve.

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