La democrazia funziona sempre?

Questo articolo è uscito sul periodico il Lametino lo scorso 12 febbraio 2011.

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Sulla sua validità assoluta possono sorgere dei dubbi

Senza l’Italia, il mondo sarebbe diverso. Il nostro paese ha donato alla civiltà moderna molte delle cose delle quali deve essere fiera, e tra queste figura una delle innovazioni che Galileo Galilei ha introdotto in campo scientifico: il metodo sperimentale. Tale metodo ha permesso di definire con chiarezza il confine tra Scienza vera e propria, verificabile e ripetibile tramite esperimenti, e credenze popolari, prive di fondamento. Galileo ha quindi delineato un confine che separa ciò che può essere provato, ossia il vero, da ciò che fino a prova contraria è da considerarsi falso o comunque non credibile. Come si sa, la realtà pone dei problemi di complessità che vanno ben oltre le astrazioni, e la Scienza ha saputo adattarsi anche a queste circostanze. Se dovessimo chiedere a dieci persone di misurare, tre volte a testa, la lunghezza di un tavolo con un metro, la probabilità di ottenere lo stesso valore in tutte e trenta le misurazioni è veramente minima. Minima è anche la probabilità, per ogni persona, di ottenere tre volte lo stesso risultato. Per risolvere il problema in maniera “democratica”, la Scienza ricorre alla media (per praticità consideriamo la media aritmetica, nota ai più, anche se non è l’unico tipo di media esistente) per trovare il valore più “vero”, ossia il più vicino a quello reale. Nel calcolare la media, tutti i valori considerati hanno il loro peso: i valori inferiori a quello reale lo andranno a sottostimare, e viceversa quelli maggiori lo sovrastimeranno. Il risultato, la media, è sì il modo che tiene conto di tutti i contributi all’esperimento, ma nessuno può garantirci che si tratti, effettivamente, del valore più accurato. Vari metodi, come quello di Student, e un briciolo di buonsenso richiesto a chi partecipa ad un esperimento, possono permettere di escludere i valori fuorvianti, quelli che alterano la media con conseguenze anche devastanti ai fini di un esperimento. Se uno strumento non funziona bene e falsa le misure, deve essere tarato nuovamente. Se uno scienziato non sa prendere le misure con la precisione richiesta, deve essere sostituito in questo compito da uno più competente. Seguire queste semplici regole è praticamente un obbligo.

Ora, tenendo bene a mente quanto siamo debitori alla Scienza e al modo in cui ha migliorato la qualità della vita grazie alla sua capacità di migliorarsi di continuo (e quindi di non incappare continuamente negli stessi errori), analizziamo la democrazia con un occhio leggermente diverso. Proviamo a rapportare la manifestazione più estesa della democrazia, ossia il voto in caso di elezioni, all’esempio della misurazione della lunghezza del tavolo citato poc’anzi. Ebbene, verrebbe immediatamente alla luce una cosa eclatante: forse, e diciamo forse per motivi di pura cautela, non tutte le persone che hanno diritto al voto lo dovrebbero avere. Non c’è niente di scandaloso in un’affermazione come questa: basta guardarsi intorno, basta pensare al sistema di scambi e di favori incentrato sui politici per capire che, molte volte, la democrazia non rispecchia quello che è il pensiero reale della popolazione, né tantomeno porta alle decisioni più giuste per la popolazione stessa. La democrazia non tiene conto degli elettori incompetenti (paragonabili agli scienziati che non sanno prendere le misure con la precisione richiesta, o che non ricorrono al buonsenso durante un esperimento importante) e dei mali di corruzione, mancanza di informazione e sistemi di scambi e favori (paragonabili in ruolo agli strumenti tarati male, che compromettono sistematicamente il risultato delle misure indipendentemente dal buonsenso e dalla precisione dello scienziato che le prende). E’ interessante notare come un approccio puramente scientifico possa portare ad interpretazioni non proprio convenzionali.

Per risolvere il problema basterebbe fare alcune cose. La prima è rivalorizzare il voto, dandogli l’importanza che merita: una preferenza sbagliata e/o comprata deve saper inorridire un cittadino perbene. La seconda cosa che si dovrebbe fare è ridimensionare l’astensionismo, facendo perno sull’importanza del voto sottolineandone il ruolo nella società civile: non andare a votare denota una mancanza di interesse nei confronti di quello che ci circonda, significa rinunciare al diritto-dovere di esprimersi scegliendo le modalità secondo le quali la politica andrà ad influenzare le nostre vite. Che senso ha lamentarsi di un dato politico se, senza rendersene conto, un astensionista ha contribuito alla sua elezione negando magari il voto ad un altro politico, forse più competente? Una terza possibilità, forse un po’ fantasiosa, è quella di introdurre una “patente per votare”, simile a quella di guida. Se per votare fosse richiesta la conoscenza (almeno discreta!) dei fondamenti della Costituzione, della storia d’Italia almeno dalla sua unità, delle tragedie causate dagli estremismi politici, dei valori della società civile, dell’importanza del voto e della necessità di partecipare attivamente alla vita cittadina, la democrazia otterrebbe il riscatto sociale che merita. Salvo strumentalizzazioni ed eventuali imbrogli che, purtroppo, sono difficili da prevenire, sapremo per certo che dietro ad ogni risultato elettorale ci sarà una scelta ponderata, una scelta che riflette il volere della popolazione anziché il volere dei corrotti e/o di chi pratica il lavaggio del cervello, plasmando le masse in base ai propri interessi. Avremo, insomma, ciò che più si avvicina al “valore vero”.

Francesco D’Amico

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