L’incapacità della comprensione di un disagio
La strada che, nostro malgrado, abbiamo imboccato è questa: è sempre colpa di chi lavora. La strada del far cadere la responsabilità dei disagi su chi lavora per un servizio e non su chi offre lo stesso. Chi lavora è fortunato, perciò deve tenersi stretto questo “posto” e deve ingoiare tutti i rospi possibili e immaginabili: sono sacrifici. Li chiamano così: “sacrifici”… ormai ogni sopruso, qualsiasi esso sia, ha cambiato nome, ed è divenuto un nobilissimo sacrificio. Perciò, se il mio datore di lavoro non mi paga per quattro, cinque mesi (e magari non capisce che patisco la fame, che mi indebito con questo e quello, perché impegnato a preparare la sua vacanza – oppure è in crisi anch’egli, con i risvolti critici della situazione), io non ho più alcun diritto di protesta, ma “zitto e mosca, lavora!”.

Il fatto che un lavoratore esprima anche il minimo dissenso a causa di una situazione che è per lui insostenibile, diventa un motivo di attacco non nei confronti della situazione stessa, ma un attacco quasi sociale nei confronti di chi protesta: come dire, è colpevole l’effetto, mica la causa. E questa è una caratteristica di questo nostro paese: se un’attività viene chiusa a causa di reati commessi al suo interno, la colpa non è di chi ha commesso il reato, ma ovviamente è degli ufficiali che ne hanno ordinato la chiusura. Ancora meglio: se una casa costruita in riva a un fiume viene investita da una piena, la colpa non è mica di chi ha deciso e di chi ha acconsentito che venisse costruita proprio lì, né della scarsa manutenzione del territorio, ma di una generica fatalità. Qua il politicante 2.0 di turno direbbe: non si può dare la colpa certo a chi sta al governo, se piove. Certamente, d’accordissimo. Ma il caro politicante 2.0 di turno non vede, o fa finta di non vedere, che non è che è necessario che una casa crolli a causa del maltempo. Non si rende conto che una responsabilità umana vi è sempre. E, solitamente, questa responsabilità è condivisa tra chi costruisce e chi consente di costruire. Ecco il discorso di prima: in questo caso si darebbe la colpa al muratore che ha costruito fisicamente la casa, non alla ditta e a chi ha dato i permessi.
La strada che, nostro malgrado, abbiamo intrapreso è quella del dare addosso alle vittime. Quella di rendere le vittime colpevoli del loro essere vittime. Essere dalla parte di chi crea le cause dei disagi e dare addosso a chi mostra l’esistenza del disagio, a chi patisce il disagio. Una sorta di male radicale in noi (kantianamente parlando), che ci spinge a essere il più cattivi possibile. Cattiveria sdoganata a più non posso sui social network, basta leggere i commenti che vengono pubblicati, attacchi degni dei peggiori villani o dei peggiori borghesi (storicamente, a seconda dei punti di vista). Se tutti questi commentatori arrabbiati avessero modo di trasformare in fisici gli attacchi scritti (e non verbali, che sarebbe ugualmente grave, ma leggerissimamente, un filino più giustificabile), avremmo ospedali e imprese funebri oberatissimi. La cattiveria ci spinge a essere idioti, incapaci, cioè, di non vedere oltre noi stessi, di comprendere la situazione altrui, spingendoci a porre la nostra condizione come universale. Da qui, la ripetizione del mio io senza possibilità del confronto con l’altro: l’altro è lo stesso di me, quindi la pensa come me, quindi agisce e deve agire come faccio io. La solitudine, dunque, ci rende cattivi.

Siamo su questa strada, quella del negare la possibilità dello sciopero, una strada che ci fa tornare indietro alla fine dell’Ottocento – inizi del Novecento. Siamo sulla strada dell’accettare lo sciopero solo se non crea disagio alcuno, uno sciopero silenzioso, che nessuno sente. Cioè: far sì che l’unico modo per farsi sentire venga imbavagliato in maniera legale e condivisa. Perché se ci fossi io in quella situazione, situazione nella quale io non ci sono, quindi immagino soltanto – se ci fossi io in quella situazione, starei in silenzio e accetterei tutto. Accetterei di sacrificarmi un po’ perché ringrazierei di avere un lavoro. Anziché essere dalla parte di chi ha un disagio, sto dalla parte di chi non ce l’ha. Perché se uno sciopera crea direttamente un disagio a me, e non mi importa il perché lo stia facendo, ché io devo andare a fare quello che devo fare e se consento di farmi salire coi piedi in testa non vedo perché anche gli altri non lo debbano fare. L’egoismo, la solitudine, l’idiozia.
Questa è la nostra strada, scampagnata con amici che tanto amici non sono, che sono più che altro specchi di noi stessi. Uno sciopero non lo possiamo proprio accettare, perché non siamo in grado, occupati così tanto a considerare solo la nostra individuale situazione, di comprendere. Perciò non ne capiamo il senso, e non capiamo che nella sua essenza, proprio perché è l’unico modo per far sì che la vittima si faccia sentire, deve scuotere, creare un movimento, un disagio. Questo potrà sembrare un discorso un po’ antico agli uomini 2.0. Sicuramente, però, sarà più moderno di quelli volti alla legittimazione dell’istanza di illegittimità di ogni sciopero.
A. Ve.
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La strada che, nostro malgrado, abbiamo imboccato è questa: è sempre colpa di chi lavora. La strada del far cadere la responsabilità dei disagi su chi lavora per un servizio e non su chi offre lo stesso. Chi lavora è fortunato, perciò deve tenersi stretto questo “posto” e deve ingoiare tutti i rospi possibili e immaginabili: sono sacrifici. Li chiamano così: “sacrifici”… ormai ogni sopruso, qualsiasi esso sia, ha cambiato nome, ed è divenuto un nobilissimo sacrificio. Perciò, se il mio datore di lavoro non mi paga per quattro, cinque mesi (e magari non capisce che patisco la fame, che mi indebito con questo e quello, perché impegnato a preparare la sua vacanza – oppure è in crisi anch’egli, con i risvolti critici della situazione), io non ho più alcun diritto di protesta, ma “zitto e mosca, lavora!”.
Il fatto che un lavoratore esprima anche il minimo dissenso a causa di una situazione che è per lui insostenibile, diventa un motivo di attacco non nei confronti della situazione stessa, ma un attacco quasi sociale nei confronti di chi protesta: come dire, è colpevole l’effetto, mica la causa. E questa è una caratteristica di questo nostro paese: se un’attività viene chiusa a causa di reati commessi al suo interno, la colpa non è di chi ha commesso il reato, ma ovviamente è degli ufficiali che ne hanno ordinato la chiusura. Ancora meglio: se una casa costruita in riva a un fiume viene investita da una piena, la colpa non è mica di chi ha deciso e di chi ha acconsentito che venisse costruita proprio lì, né della scarsa manutenzione del territorio, ma di una generica fatalità. Qua il politicante 2.0 di turno direbbe: non si può dare la colpa certo a chi sta al governo, se piove. Certamente, d’accordissimo. Ma il caro politicante 2.0 di turno non vede, o fa finta di non vedere, che non è che è necessario che una casa crolli a causa del maltempo. Non si rende conto che una responsabilità umana vi è sempre. E, solitamente, questa responsabilità è condivisa tra chi costruisce e chi consente di costruire. Ecco il discorso di prima: in questo caso si darebbe la colpa al muratore che ha costruito fisicamente la casa, non alla ditta e a chi ha dato i permessi.
La strada che, nostro malgrado, abbiamo intrapreso è quella del dare addosso alle vittime. Quella di rendere le vittime colpevoli del loro essere vittime. Essere dalla parte di chi crea le cause dei disagi e dare addosso a chi mostra l’esistenza del disagio, a chi patisce il disagio. Una sorta di male radicale in noi (kantianamente parlando), che ci spinge a essere il più cattivi possibile. Cattiveria sdoganata a più non posso sui social network, basta leggere i commenti che vengono pubblicati, attacchi degni dei peggiori villani o dei peggiori borghesi (storicamente, a seconda dei punti di vista). Se tutti questi commentatori arrabbiati avessero modo di trasformare in fisici gli attacchi scritti (e non verbali, che sarebbe ugualmente grave, ma leggerissimamente, un filino più giustificabile), avremmo ospedali e imprese funebri oberatissimi. La cattiveria ci spinge a essere idioti, incapaci, cioè, di non vedere oltre noi stessi, di comprendere la situazione altrui, spingendoci a porre la nostra condizione come universale. Da qui, la ripetizione del mio io senza possibilità del confronto con l’altro: l’altro è lo stesso di me, quindi la pensa come me, quindi agisce e deve agire come faccio io. La solitudine, dunque, ci rende cattivi.
Siamo su questa strada, quella del negare la possibilità dello sciopero, una strada che ci fa tornare indietro alla fine dell’Ottocento – inizi del Novecento. Siamo sulla strada dell’accettare lo sciopero solo se non crea disagio alcuno, uno sciopero silenzioso, che nessuno sente. Cioè: far sì che l’unico modo per farsi sentire venga imbavagliato in maniera legale e condivisa. Perché se ci fossi io in quella situazione, situazione nella quale io non ci sono, quindi immagino soltanto – se ci fossi io in quella situazione, starei in silenzio e accetterei tutto. Accetterei di sacrificarmi un po’ perché ringrazierei di avere un lavoro. Anziché essere dalla parte di chi ha un disagio, sto dalla parte di chi non ce l’ha. Perché se uno sciopera crea direttamente un disagio a me, e non mi importa il perché lo stia facendo, ché io devo andare a fare quello che devo fare e se consento di farmi salire coi piedi in testa non vedo perché anche gli altri non lo debbano fare. L’egoismo, la solitudine, l’idiozia.
Questa è la nostra strada, scampagnata con amici che tanto amici non sono, che sono più che altro specchi di noi stessi. Uno sciopero non lo possiamo proprio accettare, perché non siamo in grado, occupati così tanto a considerare solo la nostra individuale situazione, di comprendere. Perciò non ne capiamo il senso, e non capiamo che nella sua essenza, proprio perché è l’unico modo per far sì che la vittima si faccia sentire, deve scuotere, creare un movimento, un disagio. Questo potrà sembrare un discorso un po’ antico agli uomini 2.0. Sicuramente, però, sarà più moderno di quelli volti alla legittimazione dell’istanza di illegittimità di ogni sciopero.
A. Ve.
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