Poveri ma belli
Scrivo in relazione a due articoli scritti dal vice direttore de “Il Fatto Quotidiano”, Stefano Feltri, il dottor Stefano Feltri, sul proprio blog: “Il conto salato degli studi umanistici” e “Università, studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri” (sì, virgola anziché due punti). Come è facile notare già dai titoli, si disquisisce di università, studi, piacere e passioni. Mi piacerebbe commentare ciò che è scritto. [Tra l’altro, il dottor vicedirettore è stato bastonato quasi immediatamente in questi due articoli usciti sempre sulla stessa piattaforma: questo e questo].
Dunque. Prima di iniziare a esporre delle mere opinioni personali, conviene descrivere il contesto (cosa che bisognerebbe sempre tenere in considerazione, per non cadere nella tuttologia oggi di moda e cercando di non scadere nel più dannoso relativismo), e in questo caso il contesto potrebbe essere in primo luogo il background dell’autore stesso. Due parole soltanto: classe 1984, laureato “con sacrifici” in Economia alla Bocconi. Primo campanello d’allarme. Quando io mi ritrovo giù nel mio orticello e mi metto a zappare o a legare e alzare i pomodori non mi posso permettere il lusso di ascoltare i consigli che mio padre, che mai ha avuto un orto, prova a darmi dalla finestra di casa. Allo stesso modo, se dovessi imbiancare casa, chiaramente chiederei aiuto a lui, se non proprio affiderei a lui il lavoro, in quanto di mestiere si occupa di ciò. In questo senso, non posso permettermi il lusso (reitero volontariamente e a ragione la parola “lusso”… parlando di Bocconi ed Economia) di provare ad ascoltare dei consigli riguardo al mio futuro, futuro di un figlio di precario dell’edilizia, da parte di uno laureato alla Bocconi: mi dispiace, sono due contesti che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro (per tornare al discorso agricolo di sopra: non posso permettermi il lusso di consociare il pomodoro con il cetriolo – non chiedetemi il motivo, ma è così). E questo mi porta dritto dritto al secondo campanello d’allarme: il “con sacrifici”, che l’autore esprime riguardo la decisione dei suoi genitori di mantenerlo alla Bocconi. Dunque: il sacrificio. Senza disquisizioni eccessive, il sacrificio è sempre sacrificio sulla base di ciò che posso fare. Come dire, sempre parlando di agricoltura: se voglio mantenermi un orto, devo avere a disposizione del tempo ogni giorno da dedicare alla cura dello stesso. Ora: togliendo le ore di sonno necessario (e riduciamole a 6); togliendo quelle per lo studio necessario (a riduciamole a 4-5); togliendo quelle per sé – igiene personale, nutrimento, grattarsi un braccio se prude, pulirsi le lenti degli occhiali, rispondere alle rare mail, rari sms importanti che arrivano, burocrazia varia… (riduco a 2-3); togliendo quelle per la partner, piacere che qui riduco al minimo (3-4 ore); togliendo quelle per i rapporti con la famiglia (vai a prendere tua sorella che è rimasta a piedi, aiuta tua mamma a raccogliere i vetri di un bicchiere rotto e così via…) (3-4 ore) – togliendo tutto ciò in media rimangono 4-6 ore al giorno per lavorare in giardino. Perfetto. Il tempo c’è, ma lo stress non è calcolato. A ogni modo, sarebbe possibile lavorarci. Piccola parentesi, dalla quale poi continuare il discorso: non ho un lavoro. Pensiamo un attimo: con questa divisione del tempo, aggiungiamo il lavoro e, guardando i risultati ci rendiamo conto che, anche se fosse un part-time da 4 ore al giorno, non avrei più il tempo necessario per avere l’orto. Direi che proprio non vi sarebbe la possibilità di sacrificare altro tempo per avercelo, proprio perché, come avrete notato, ho già da subito ridotto al minimo il tempo. Non so se è chiaro: non si può togliere nulla al vuoto, insomma.
Fatta questa spiegazione/esempio, provo a ridurre ai minimi termini: se non vi è la possibilità di sacrificare nulla, nulla posso sacrificare. Ecco perché il sacrificio è sempre sulla base di qualche mia possibilità (e, quando tutto manca, ciò che posso sacrificare è la mia stessa vita. Ora, secondo voi, è lecito chiedere ai miei genitori – e “chiedere” non è per forza una richiesta vera è propria – di sacrificare la propria esistenza per mantenermi negli studi? Ecco il campanello d’allarme: se il vicedirettore è andato alla Bocconi a studiare è perché, comunque, aveva la possibilità di sacrificare qualcosa che non fosse la vita dei genitori o, ancora più insensatamente, la sua per sborsare circa diecimila euro annui – solo di tasse, senza dunque contare la casa, la spesa, le bollette, gli autobus o la macchina se ce l’hai – per studiare. Io, che forse nemmeno li vedo diecimila euro annui, non posso sacrificare nulla per andare alla Bocconi. (Per favore ora non dilunghiamoci sulla questione “borse di studio”).
Terzo campanello d’allarme, strettamente connesso al primo (e casa mia è diventata un campanile a mezzodì): è laureato in Economia. Mi si dirà: “embè?”. Ritorniamo in giardino. Se mio padre venisse giù nel mio orto anziché darmi consigli dalla finestra, credete che sarà di nuovo così sicuro di quello che da lassù mi urlava? Credete che, una volta che avesse iniziato ad avere le mani ricche di bolle per la zappa (da ribadire una cosa: il suo è pure un lavoro manuale comunque), sarebbe così sicuro di ciò che prima mi diceva? Io credo che, come minimo, potrebbe iniziare a titubare. Ora, un laureato in Economia, uno che guarda dati statistici, andamenti, linee e grafici (cioè: è alla finestra) (oh, chiaramente è riduttivo come discorso: ma non sto assolutamente giudicando – e chi sono io per farlo? – lo studio dell’Economia, ma sto solo mettendo in relazione), quanto può conoscere, che ne so, del giudizio riflettente kantiano? Certo, potrebbe averlo studiato per conto suo, ma anche un kantiano, allora, potrebbe studiare per conto suo una tabella dell’andamento del PIL. Cosa cambia? Non è questo il punto. Il punto è che il vicedirettore dottore bocconiano economista liberista “crescitista”, ista, ista e ista (giusto perché egli ha etichettato pure tutti gli umanisti sulla base di dati, anche io etichetto lo stesso sulla base di dati, che si trovano ovunque: Monti è l’emblema), anziché esporre freddamente i dati, dati che tutti possono conoscere, dona al mondo anche dei giudizi di valore, e forse anche inconsapevolmente – il che è ben più grave:
«Tra qualche settimana molti studenti cominceranno l’università. I loro genitori che si sono laureati circa trent’anni fa potevano permettersi di sbagliare facoltà, errore concesso in un’economia in crescita. Oggi è molto, molto più pericoloso fare errori. Purtroppo migliaia e migliaia di ragazzi in autunno si iscriveranno a Lettere, Scienze politiche, Filosofia, Storia dell’arte» (Il conto salato degli studi umanistici, Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2015 (modificato il 13 agosto alle 18.35)
Non pare anche a voi, questo, un netto giudizio di valore: egli sta iniziando così il suo articolo! Sta dicendo che scegliere una facoltà (non tenendo conto dell’attuale inesistenza della facoltà, né del significato proprio della parola: non è che una facoltà la si sceglie, ma si è portati) è “pericoloso”, e si possono commettere “errori”. Errori sulla base di dati, trend, statistiche, sondaggi… Non sta semplicemente affermando che i ragazzi possono commettere errori scegliendo una “facoltà”, ma dice che commettono un errore a scegliere quella, proprio quella facoltà. Non prende minimamente in considerazione il fatto che io, per esempio, laureato in Filosofia, avrei potuto commettere un errore a iscrivermi, che ne so, a Ingegneria. No, perché aprioristicamente scegliere Iingegneria non è un errore, per il dottore, ma solo le “facoltà” umanistiche (o, come direbbe qualcuno, umaniste). Eccolo il giudizio di valore. Il dato preso in sé, cioè che i letterati, i filosofi, gli storici, gli storici dell’arte, gli scienziati politici (che sono, a ben vedere, tutt’altro che “umanisti”, quindi: un altro campanello d’allarme), è quasi certo che non troveranno lavoro, viene preso come il consiglio: “Non iscrivetevi a dette “facoltà” perché non troverete lavoro”. Il salto è ben grande. Un dato non è un consiglio, ma, appunto, l’attestazione, su basi scientifiche (vabbè), di una certa tendenza del mondo. Il consiglio è quello del giornalista economista bocconista vicedirettorista, non quello del dato, degli studi fatti. Notiamo, qui, allora, una sorta di petitio principii: il dottore usa i dati per andare oltre e confermare una sua teoria (legittimo, se correttamente usati i dati) che consente di giudicare e consigliare – dalla finestra sull’orto – le scelte altrui (illegittimo). Vorrei solo fare una domanda al vicedirettore (chiaramente retorica: non è che sto qua a interessarmi della risposta… che scendesse nel mio orto prima!): ma, secondo lei, noi che abbiamo scelto questa strada non eravamo, siamo consapevoli delle prospettive? Ma, secondo lei, noi veramente ci lamentiamo di non trovare lavoro? Dove le ha sentite queste lamentele? Noi ci lamentiamo di non trovare lavoro nemmeno in un bar! È completamente un’altra cosa, che esula dal nostro percorso formativo (perché noi cosiddetti “umanisti” ci siamo formati)! Non c’entra nulla con le prospettive della nostra scelta! Eravamo e siamo ben consapevoli di quello a cui andavamo incontro (eccolo il sacrificio, quello vero, quello delle nostre vite)! Ma lei ci ha preso per degli immaturi, fannulloni, scarsi, idioti, mediocri e quant’altro. Caro dottor vicedirettore: la nostra vita è ben altro dei dati di qualche studio scientifico, se lo ricordi. E si tratta di una vita che va ben oltre il “sonocazzituoi” del suo secondo articolo, molto oltre. Lei in questo modo dimostra un individualismo che lascia i nostri corpi senza braccia, un atteggiamento “bocconiano” per cui ognuno merita ciò che ha, così il barbone merita di essere tale, perché non fa mai niente da mattina a sera: suvvia, sono cose da cabaret.
Noi che abbiamo scelto questa strada l’abbiamo scelta ben consapevolmente. Sappiamo cosa significa, non c’è bisogno del dato di qualche studio per scoprirlo: ha scoperto l’acqua calda! Ma c’è qualcosa che va ben oltre i dati, le statistiche e i soldi: siamo noi stessi. Noi siamo quelle cose lì, siamo la letteratura critica. Noi siamo quelli che stanno anni e anni, se non decenni, sullo stesso testo senza stancarci, senza considerarlo obsoleto (sarebbe ridicolo considerare Platone e Aristotele obsoleti). Il vicedirettore sa cosa vuol dire una cosa del genere? Sa cosa vuol dire scoprire sempre, a ogni lettura, qualcosa di nuovo in quella pagina che ha già letto decine e decine di volte? Sa che ciò è possibile grazie al tempo presente? Lo studio delle cosiddette scienze umane è uno studio del presente, non del passato: è uno studio delle cose in movimento, del mondo come va oggi. Considerarlo uno studio del passato è da ignoranti (come dicevano Aldo, Giovanni e Giacomo: “nel senso che ignora”). La differenza con lo studio dei dati è che i dati non siamo noi. E se la sua risposta a questo discorso sarà o porterà conseguentemente a: “Con la cultura non si mangia”, beh, sarà incommentabile. (Ah, tenga presente che dopo questa sua uscita ha perso un assiduo lettore, con buona pace del suo direttore, che almeno non se la prende con i “poveracci”, come lei ci considera).
Se il mondo dona più opportunità a uno che è laureato in Economia, Ingegneria e così via, non significa che tutti dobbiamo omologarci a tale indirizzo del mondo. Un atteggiamento del genere è massificatorio, contraddittorio e alquanto retorico. Pare proprio un discorso da bar, in quei bar dove i tuttologi proliferano: gli ambienti per eccellenza della cultura in Italia. La nostra vita non è una semplice scelta dei mezzi adatti per raggiungere un fine che lei ci dice essere quello giusto. Mi dispiace, ma il fine della mia esistenza lo scelgo io sulla base non tanto delle mie passioni cangianti a ogni piè sospinto (che sennò il don Giovanni sarebbe un eroe vero e proprio), ma sulla base di ciò che io sono: io devo realizzare la mia propria natura (e, come vede, Aristotele non è proprio così obsoleto), e la mia natura non è il lavoro da economista, non è lavorare in camicia bianca a vendere e comprare azioni a Wall Street (che per qualcuno è gratificante: per me no. Questo è non dare un giudizio di valore: capire la vita altrui senza pretesa di mettervi bocca dalla finestra sull’orto). Non è lecito né legittimo che il mondo mi imponga dei fini che non sento, che non sono miei: non significa estraniarsi dal mondo, ma dare il proprio contributo, unico e inimitabile, alla storia, piccolissimo e insignificante che sia. Non siamo in grado di donare tutti lo stesso contributo al mondo (e meno male!).
Caro vicedirettore, lo ripeto: non è un errore realizzare se stessi. Forse uno della Bocconi non può concepire l’idea secondo la quale una società giusta non è quella che dona a qualcuno ciò che merita, ma quella che dona a tutti la possibilità di essere, e di essere al meglio delle proprie potenzialità.
P.S.
Non capisco perché ogni secondo ci dobbiamo sentire dire che siamo un peso per la comunità (soprattutto da parte di individualisti meritocratizzanti) quando siamo dei cittadini che pagano le tasse, studiano e magari lavorano, scrivono e non fanno cagare i loro cani per strada, ma portano la palettina.
P.P.S.
Mi scuso per la lunghezza dell’articolo, ma più corto di così non poteva essere. Tra l’altro, già di queste dimensioni, lascia alcuni punti in sospeso e facilmente fraintendibili. Mi rimetto alla buona fede dei pochi lettori.
A. Ve.
Tutto molto giusto, purtroppo Feltri si è limitato ad esprimere un semplice dato di fatto, non un’idea o un dover essere.
Il vero problema è che una mentalità del genere, quella di Feltri ed altri, è, come dire, un’espressione del potere. Qui ci tocca essere foucaultiani, e ammettere che per una serie infinita di ragioni la nostra delegittimazione avviene anche tramite i giornali che dovrebbero, invece, porsi come critica e alternativa al modo di pensare dominante. Nel Fatto c’è di tutto, da bravi analisti a mercanti urlanti sino ai complottisti. C’è anche il potere che ci ripete, anzi ci conferma, che se studiamo cose che non producono utile sono affari nostri.
Nostri di noi umanisti, noi che abbiamo studiato qualcosa di diverso da numeri, sistemi e grafici, o che per lo meno ci siamo avvicinati ad essi (possibile non farlo? no) con un approccio umanistico. Noi lasciati a sé stessi, purtroppo.
Finché qualcosa non cambierà occorre accettare questi articoli e prenderli come spunto per poter riorganizzare qualcosa. Il modo in cui farlo non saprei, ed è questo che è più straziante.
Non so tu, ma io sono più contento così, a essere denigrato dal potere piuttosto che esserne lisciato. Quelli “ben visti” sono tali perché non fanno male a chi sta in alto, altro che “utilità del prodotto”… Grazie per il commento! Alla prossima!
TLR – A. Ve.
incollo qui un mio commento fatto in un gruppo chiuso su un post in cui sono stata taggata visto che mi è stata fatta questa richiesta (si legga “si capisce che mi rivolgo ad altre persone e non all’autore, parlando un po’ di me e del mio orticello)
Dunque, secondo me sono due punti di vista diametralmente opposti, quello filosofico un filo antiquato e anacronistico: l’università ha smesso di essere il tempio del sapere fine a se (o sé) stesso parecchi anni fa, (e possiamo discutere su quanto ciò sia positivo o meno): il punto è molto semplice: il filosofo si sceglie la sua facoltà e sceglie per la sua vita nei successivi 5 anni e poi va a fare il barista (lo ammette lui stesso), mediamente chi sceglie la scienza si preoccupa di quello che studia in quei 5-6 anni di università, e poi continua con specialististica, phd, per poi essere più o meno formato verso i 40 anni se non oltre (cosa che tra l’altro non capita a tutti, c’è chi a 70 anni studia ancora e chi finisce quando ha finito la specialistica): capisco la frustrazione, pure io sarei frustrata se mi fossi sparata sei anni di medicina per finire a servire spritz. Ci ha buttato dentro la questione soldi: senza finire a parlare di bocconi (che direi che è la più cara in Italia) se ne fai una scientifica, di retta paghi comunque di più di una umanistica (non so le altre ma noi di medicina non paghiamo pochissimo, io passo di poco i 3000 se non erro), mediamente finisci e pur essendo a carico durante gli studi qualcosa riesci a mettere da parte poi e rimborsare mamma e papà o comunque riesci a non rimanere a carico loro fino a i 40 anni, quindi non è proprio vero che obblighi mamma e papà a vendere le chiappe (ma i genitori dovrebbero avere anche l’intelligenza per capire questa cosa, se il figlio gliela chiede e dimostra di meritarselo, parlando di rendimento). il punto è capire cosa serve l’università PUBBLICA, a cosa vogliamo farla servire? alla soddisfazione personale? al sapere puro e inapplicabile? oppure in un secolo (partiamo dagli anni 20 del secolo scorso) di progresso scientifico e tecnologico senza eguali, con la prospettiva di averne davanti uno (giusto per porre un limite) altrettanto pregno di scoperte, cambiamenti e progresso, dovremmo svecchiarci e svegliarci un po’ e pensare che forse si può discutere se finanziare un dottorato di ricerca sullo Sturm und Drang o orientarsi, in tempi di vacche magre(perché anche di questo parliamo, gli anni 80 sono finiti), su un progetto che si occupa di sviluppare una tecnologia che riguarda l’energia pulita, sullo studio delle collagenopatie, sulla statistica, sullo studio di nuovi materiali e via dicend? quando si parla di formazione, si pensa all’impatto economico e non che essa ha sulla collettività sia in senso positivo che negativo?ha senso formare un filosofo, spendendo tempo e soldi, per poi fargli fare il barista? se è solo una questione personale, non ha forse più senso che ognuno si coltivi i propri interessi per i cavoli suoi? Lui parla di leggersi 5-6 volte un testo e scoprire qualcosa di nuovo, sono giorni in cui mi sto studiando l’anatomia chirurgica del diaframma, sto cercando articoli e palle viarie e praticamente da quando Leonardo s’è messo a tagliuzzare cadaveri fino ad oggi non si sono trovate tutte le risposte alle varie domande che riguardano quell’unico, fottutissimo muscolo che mi interessa, cioè, potrei fare ricerca sul diaframma e scoprire qualcosa di nuovo, tra l’altro solo per la parte che riguarda la digestione, perché la sua funzione principale è nella respirazione, e quella mi interessa poco per ora. Comunque, tornando a noi, è stato calcolato che un superspecialiasta in medicina/chirurgia (e immagino pure per gli altri sia così se non peggio per chi fa ricerca e basta) si debba leggere qualcosa come 35 articoli nuovi a settimana che riguardano il suo micro orticello in cui è specializzato per ritenersi davvero aggiornato: vogliamo parlare del leggersi l’Iliade cinque volte in tutta la vita? il carico, per quanto nobile sia occuparsi dell’Iliade per 5 decenni, è un filo diverso. e vista la necessità di progresso, dal mio piccolo credo che gli investimenti, che includono anche la formazione, debbano essere indirizzati e impiegati in maniera un filo più utilitaristica e meno romantica.
Il discorso del bocconiano è estremamente arido, forse troppo e potremmo discuterne, ma è un discorso dei nostri tempi, l’altro trovo che sia figlio del 68.
Aggiungo anche una cosa: sono fortemente convinta che in Italia si scelga meno la scienza rispetto al resto d’Europa perché nella scola dell’obbligo viene insegnata poco e male: fare un liceo scientifico, che comunque non esclude lo studio del latino e della filosofia (rispettivamente per 5 anni la prima materia e 3 la seconda) e ritrovarsi al quinto anno, quello della maturità a fare 2 ore di scienze, 2 di fisica e 2 di matematica VS 3 di italiano, 3 di latino, 3 di filosofia e 4 di storia, ripeto, in uno scientifico, con la prof di fisica e matematica che ti entra in classe dicendo “ringraziamo dio perché ci ha dato la forza di gravità” e che fa lezione leggendo il libro e risolvendo i problemi dal risultato, non è che proprio ti invogli a cimentarti nello studio delle materie scientifiche eh, diciamolo.
Mi scuso se rispondo con un ritardo grosso così.
Mi scuso, in secondo luogo, per non aver scritto chiaramente, perché, appunto, le critiche mosse da lei vanno proprio nella direzione del fraintendimento. Appunto, ho scritto male. Peccato: quello devo saper fare nella vita, scrivere, e non lo faccio neppure bene! Proprio un reietto della società che richiede assistenza e assistenzialismo.
Capisco che lei a inizio commento precisa che non si riferisce a me, ma agli umanisti in generale: però così ha addirittura reso la sua opinione ben più pesante e offensiva. Sarebbe stato meglio dire: “Mi riferisco all’autore”, così non mi sarei sentito minimamente toccato. Rientrano nel gioco le critiche, ci stanno. Ma riferendosi alla categoria “umanisti” in generale ha peggiorato un filo il giudizio.
Proviamo un po’ a discutere, però lasciamo da parte i soldi, le tasse e le altre cose: non so quanto lei paga di tasse all’anno, ma le assicuro che lo faccio anch’io, guardi, le farò le foto ai documenti se vuole! E soprattutto, cerchiamo di seguire un filo logico, senza sparare opinioni a vanvera (come ho fatto nel post: scusi di nuovo).
Innanzitutto, secondo me, espertissimo in materia di opinioni tuttologiche e nientificanti, andare o no al passo coi tempi non è indice di muoversi nella giusta direzione, e su questo vorrei che ci intendessimo. Essere antiquato e anacronistico (che potrebbe essere un’offesa, tra l’altro posta a inizio commento, giusto per essere chiari ed evitare fraintendimenti: con ciò mostra anche un suo sentirsi dall’altra parte, quindi dalla parte dei moderni), lo reputo un complimento: anzi, la ringrazio, mi lusinga molto. Andare al passo coi tempi sarebbe una cosa troppo complicata: sa, seguire la finanza, i soldi, l’euro, la borsa cinese che crolla, lo shopping, i saldi, il mare, le vacanze, il lavoro e la disoccupazione… No, no. Preferisco girare con la toga e i sandali. Tra l’altro, devo commentare molto rapidamente perché tra un po’ Euripide presenterà il suo nuovo lavoro, Le Baccanti, e non vorrei perderlo. A parte l’ilarità, intendiamoci anche su questo: che cosa vuol dire essere antiquato e anacronistico? Cioè: se andassi da Mc Donald’s sarei al passo e invece se mi raccogliessi i pomodori sarei anacronistico? Se credo che la cultura umanistica sia da valorizzare perché è nostra sono antiquato (magari Ottocentesco), mentre se credo che bisogni estirpare dalle università questo tipo di formazione (perché il fine di togliere i fondi è questo) sono moderno? Però le volevo dire una cosa: il discorso che fa lei è tipicamente Positivista (veramente io andrei ancora più indietro nel tempo, ma evitiamo polemiche). Non so, mi ricorda molto Comte è l’ossessione per il progresso scientifico come risposta a tutto e l’ideologia scientista. Ma qui vorrei solo parlare di tempi ecco: metà Ottocento. Quindi a livello di tempi passati nessuno dei due, né io né lei, siamo al passo coi tempi ecco. Secondo il mio punto di vista andiamo alla grande, secondo il suo siamo dei vecchietti antichi con opinioni un filo passate. Appunto, dico semplicemente quello che dice lei in sostanza, con una forma un filo più esplicita. Quindi non se la prenda, non la sto offendendo: non sono io a darle dell’antiquata, che tra l’altro sarebbe pure un complimento (al giorno d’oggi i complimenti sono ben altri… ai miei tempi, invece!), ma lo ha fatto lei stessa.
Altra questione relativa alla giusta direzione e al giusto tempo: che l’università sia un mero istituto professionale e/o al massimo tecnico e non il tempio del sapere è una mezza verità. Ma l’altra metà va pure, se non esaminata, almeno vista. Lasciamo da parte il fatto che oggi sia così e che si reputi ciò giusto (proprio perché non sempre il procedere dei tempi è la stessa cosa che la giusta direzione): il discorso inevitabilmente poggerà su un utilitarismo di fondo che, anche in questo caso, lei stessa si troverà a dover rinnegare. Spieghiamo meglio (e lasciamo da parte gli umanisti spreconi che ci tolgono il lavoro sporcano e non pagano le tasse ma cercano solo assistenza… giudizi che random vengono espressi nei confronti un po’ di tutti): se l’università produce non più sapere, ma oggetti (che sono appunto i risultati della ricerca tecno-scientifica), allora questi oggetti sono il fine dell’università. Benissimo. Un oggetto, lei sarà d’accordo, è qualcosa di tangibile (fisicamente ma anche concettualmente). Così dicendo, allora, sarebbe giusto finanziare chi produce tali oggetti. Perché, in fin dei conti, tali oggetti sono anche utili (anche se qui il concetto di utilità sarebbe da rivedere: chiaro che se uno scopre la cura del cancro ha fatto qualcosa di utile; ma è utile ancora se, somministrando la cura del cancro, posso causare un danno altrettanto grave?). E ci mancherebbe pure. Ma non stiamo guardando l’altra metà: quante ricerche di quelle finanziate vanno a produrre veramente questi oggetti? Rispetto ai progetti di ricerca, quanti, nel breve periodo, producono risultati tangibili, oggetti? Non è che ogni ricerca vada a buon fine, almeno nel breve periodo: questo dobbiamo ammetterlo. Sto forse dicendo che dobbiamo, allora, bloccare quei finanziamenti che vanno a ricerche il cui fine è molto lontano? Assolutamente no. Anzi, più finanziamo e meglio è. Altrimenti, se dicessi il contrario, farei esattamente il gioco dei critici degli umanisti. Cioè quello che ha fatto lei. Ecco, di nuovo dico sostanzialmente quello che lei ha detto, ma con una forma un filo più esplicita. Non la sto assolutamente attaccando. Mi attaccherei io stesso: insomma, mi ritrovo dalla sua stessa parte. Detto ciò, l’università non è mai stata mero tempio del sapere: non è che nel Medioevo le università erano luoghi di chiacchiera. Ben due delle quattro facoltà erano prettamente pratiche (diritto e medicina – me la passiate, per favore, sennò mi inizia Euripide!), e le altre erano teologia (e mi sembra giusto, essendo la religiosità la cifra del Medioevo: nessuno oggi, con la nostra mentalità, si sognerebbe di non finanziare Ingegneria) e arti (le arti liberali, che tenevano le mani libere, proprio per differenziarle dalle altre e per differenziare il carattere di libertà dai vincoli…). Se fosse stato un mero tempio del sapere, non ci sarebbe stata alcuna innovazione nella storia. Poi ne parliamo della disputa durante la rivoluzione scientifica. Chiudiamo qui questo punto.
Parentesi: quando lei scrive “il filosofo” a chi si riferisce? No, perché la cosa interessante è che io sicuramente questo titolo non ce l’ho. Strano, no? Lei ha studiato molto medicina, si è laureata e ora è medico; io ho studiato poco filosofia, mi sono laureato e ora non sono filosofo. I filosofi sono Kant e Hegel, non un pinco pallino. La differenza sta proprio nella formazione che io e lei abbiamo avuto.
Ritorniamo. La questione del barista. Qui devo essere stato veramente un criptico ermetico. Non mi sono reso conto che bisognava essere ben più materialisti. Errore mio. Non è certo un’aspirazione mia personale quella di fare il barista (che poi non ne vedrei il problema, comunque), ma si trattava di un esempio. Esempio tra l’altro volto a attestare l’esistenza di un problema sociale ben grave che è l’assenza di lavoro. Ho detto “barista” ma avrei potuto dire “cipollaro”, che ne so… Ah, io non lo faccio il barista, ma se qualcuno mi offre questo lavoro sono a disposizione… Per cui il mio studio non è stato vano, in questo senso. Mi riferivo al lamentarci di noi umanisti di non trovare un lavoro qualsiasi, e, anzi, è una lamentela che è più ampia rispetto alla categoria umanisti. Quindi, è tutta un’altra cosa: si trattava della disoccupazione generale, non di quella di categoria.
Non mi va, ora, di ritornare sul discorso del sacrificio dei genitori e del merito perché credo, almeno qui, di essere stato chiaro. Lo riassumo riscrivendo: non si può togliere nulla dal nulla. Se uno i soldi non ce li ha non li può sacrificare, punto. [Consiglio di guardare meglio il post, se ne ha voglia, se la sente e tutto quanto]
Se uno sceglie una facoltà umanistica non è un capriccioso nullafacente e inetto: è un umanista. E non è una cosa che uno può fare per piacere e da autodidatta: quando uno leggerà prima di andare a letto la Fenomenologia dello Spirito e me ne parlerà nella maniera adeguata (e qui, sotto, andremo all’ultimo punto) allora veramente non ci sarà motivo di studiarla. Ma non penso sarà possibile. Perché? Per tanti motivi. Ma lasciamoli da parte.
L’ultimo punto, forse: la lettura reiterata di una cosa e gli articoli (lei parla di 35 a settimana mi pare). Se non sbaglio io ho parlato di letteratura critica. Non si tratta solo di leggere l’Iliade 5 volte ecc. ecc. La letteratura critica è ben altro, e, scoop sensazionale, esiste anche da noi! Strano! Facciamo anche noi ricerca, produciamo anche noi oggetti. E, ancora più strano: non è vero che sono inutili! La ricerca sullo Sturm und Drang della quale parla lei, perché è inutile? È un prodotto, per cui rientra nei fini dell’università, ha i suoi motivi, e ha chi ci lavora. Il fatto che sia utile o inutile è riferito sempre a un campo di interessi. Lei socialmente può ritenere inutile un nuovo saggio sullo sviluppo del dissenso politico, io lo reputo molto utile perché mi consente di capire come proseguire nella mia esistenza (e soprattutto se vivo sotto dittatura). Lei può ritenere socialmente utile fare una ricerca sui funghi dei piedi, io potrei (ma non è così, perché io, come ho scritto sopra, non do giudizi di valore!) preferire amputarmi il piede: ma è solo per mostrare la soggettività di questo tipo di giudizio. L’utile e l’inutile cambiano sempre, per persone, epoche e società. Per cui io preferirei basarmi su qualcosa di più universale, che è l’humanitas.
Lei può essere esperta e leggere tutti i saggi che vuole! Chi le dice nulla? Mica qui è una sfida a chi fa di più… o a chi paga di meno. Qui si parla di realizzazione di sé in quanto uomo e in quanto membro attivo e soddisfatto della società. Il romanticismo opposto all’utilitarismo non c’entra nulla. Per cui vacche magre, soldi e cose così lasciamoli da parte. Ché le vacche magre esistono per tutti. Se continuiamo con questi discorsi di soldi cominciamo a dire: “Eliminiamo il welfare perché ci sono vacche magre, via i pullmini per i disabili perché ci sono vacche magre…”, ops, ci siamo già. Ma, allora, che cosa rimane da tagliare? E cosa da salvare?
Mi dispiace per la sua esperienza a scuola (“ringraziamo dio per la legge di gravità”): per fortuna è un orrore che io non ho vissuto. Come vede, è una questione di contesti diversi, e non di banale relativismo d’opinione. Perché è un brutto vizio quello di generalizzare un’esperienza individuale, come se tutto il mondo procedesse sulla base di quell’esperienza. Stranamente, qui è soggettivista e non si basa su dati oggettivi. Perché se pensa che veramente un caso dimostri l’universale peccherebbe di fraintendimento dell’induzione, la quale senza verifica non è nulla di scientifico.
Ora scappo che mi inizia Euripide, che è un tipo molto, eccessivamente permaloso. Essendo io stato invitato da lui personalmente, potrebbe prendersela se arrivassi in ritardo, a spettacolo iniziato. Non s’immagina nemmeno che tragedia ne farebbe…
P.S.
Dopo le scuse, i ringraziamenti. Grazie per il commento e per gli stimoli offerti.
Ora, di nuovo le scuse: mi scuso per la lunghezza della risposta, ma il suo commento (qui trattato come domanda), richiedeva questa lunghezza; anzi, è una risposta anche fin troppo corta.