Questo articolo è uscito sul mensile il Lametino (n. 214) il 24 gennaio 2015.
Dal modello dell’alpinista a quello del surfista: implicazioni socio-psicologiche
La carriera è stata per molti anni il simbolo della condotta lavorativa di milioni di italiani. Si tratta di un modello che ha rappresentato il sogno di una vita diversa per le categorie sociali più deboli, ma anche l’espressione del desiderio di una maggiore giustizia sociale. Eppure, per questa gioventù che si affaccia alla vita, non è un concetto semplice da comprendere. Se i nostri padri, infatti, hanno ben chiara nelle loro menti l’idea dello “scatto”, i giovani – in contropartita – non riescono neanche a trovare un lavoro stabile. Facciamo allora qualche passo indietro e cerchiamo di comprendere che il termine carriera, che deriva dal latino carraria e rimanda alla via sulla quale circolavano i carri, descrive la strada che un lavoratore percorre in una prospettiva dove si valuta il successo in base al salario, alle promozioni e alla posizione che si occupa nell’organigramma aziendale.
Questa concezione di carriera è mutata nel tempo? Decisamente sì. Partiamo dal periodo post-bellico, per intenderci quello del miracolo economico, quando i giovani del tempo entrarono in massa nei contesti lavorativi. La situazione occupazionale era abbastanza certa e mediamente stabile grazie ai “contratti indeterminati”, ragion per cui il lavoratore si dedicava alla verticalità. Stiamo parlando di un approccio tradizionale, nel quale il lavoratore poteva pianificare il proprio percorso professionale, valutando vantaggi e avanzamenti futuri. Successivamente, in uno scenario caratterizzato dalla flessibilità nei rapporti di lavoro – più vicino ai giorni nostri – le cose sono molto cambiate: da una carriera di tipo europea siamo passati ad una carriera di tipo anglosassone. Nel primo caso stiamo parlando di una carriera legata alla verticalità, alla scalata, tanto da immaginare il lavoratore come una specie di alpinista. In pratica il lavoratore opera in un’azienda piramidale, nella quale deve appunto arrampicarsi per scalare la piramide, cercando di crescere professionalmente all’interno dell’organizzazione. L’immagine che abbiamo è legata al famoso “scatto”, ben rappresentato nei film fantozziani, dove il carattere lavorativo è quello della specializzazione e della parcellizzazione dei compiti. Con il tempo, però, si sono ridotte le posizioni di responsabilità – spesso ricoperte per anzianità di servizio – con una netta diminuzione delle linee gerarchiche. In buona sostanza spariscono le aziende verticali con molti livelli gerarchici e, di conseguenza, la possibilità di far carriera.

La mitica carriera fantozziana.
Il passaggio dalla carriera verticale a quella trasversale è così rappresentato dalla già citata carriera anglosassone o degli USA, quella che potremmo anche definire del surfista. Siamo in una situazione nella quale non abbiamo più un lavoratore che opera in una sola azienda, ma – spesso e volentieri – lo stesso si sposta da un’organizzazione ad un’altra. In questo caso la professionalità è data proprio dal fatto di aver ricoperto nel tempo più posizioni, dall’aver interagito in più organizzazioni aziendali e dall’aver vissuto molteplici e differenziate esperienze. Con la carriera americana o anglosassone, che dir si voglia, nasce anche un problema di tipo culturale, in quanto viene richiesto agli individui di cambiare i rapporti con la verticalità e l’organizzazione. In una carriera che non si sviluppa più per livelli bensì per professionalità, infatti, il lavoratore si ritrova ad avere delle grosse difficoltà di tipo psicologico-culturale nell’accettare una situazione completamente nuova. L’impresa per la quale lavora è ormai inserita in un sistema dinamico, ma il concetto di carriera e di professionalità è – per l’individuo – molto personale. In pratica le trasformazioni che hanno investito l’attuale mercato del lavoro hanno anche prodotto implicazioni socio-psicologiche rilevanti, che si estrinsecano in un problema tra l’identità individuale e l’identità lavorativa. Le stesse, infatti, coincidevano nel vecchio mercato del lavoro. Oggi non più.
L’obiettivo da perseguire per i prossimi anni sarà quello di esaminare i cosiddetti “lavoratori flessibili”, tenendo presente l’evoluzione dei percorsi di carriera nei quali sono inseriti e rivoluzionando la prospettiva d’indagine. Cosa si vuole intendere? Molto semplice, solo che è necessario abbandonare una visione pessimistica del lavoro flessibile, cercando di non pensare solo alla precarietà bensì alla possibilità di imparare ad esprimersi in un modo alternativo e in diverse situazioni lavorative. Implementare competenze e capacità è sicuramente possibile, ma solo con la collaborazione delle imprese. La forza lavoro, infatti, è rappresentata da un melting pot di competenze, culture e bisogni. In questa prospettiva le risposte delle persone sono fondamentali, visto che molti dei risultati di tipo quantitativo e qualitativo dipendono proprio dalle capacità, dagli interessi e dalle intenzioni degli esseri umani. Le aziende che riescono a rimanere sul mercato, investono sulle persone indipendentemente dalla “forma contrattuale” in vigore. Riflettiamoci.
Antonio Dimartino
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Complimentiii cm al solitoo chiaro e precisoo e hai ben intesoo le diverse fasi e descrizioni di carriera!!!
Grazie cara Vittoria, l’idea era proprio questa.