Dove sbaglia il meridionalismo neoborbonico?

Questo articolo è uscito sul mensile il Lametino (n. 214) il 24 gennaio 2015. Per motivi di spazio, la versione cartacea non è integrale.

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Il riscatto del Sud è possibile, ma è necessaria un po’ di sana autocritica

Il divario Nord-Sud è un onnipresente argomento del giorno nel nostro paese. L’Italia si è lasciata alle spalle il razzismo interno più estremo, ma continua a confrontarsi con profonde spaccature sociali ed economiche. Negli ultimi anni, grazie anche all’operato di scrittori del calibro di Pino Aprile, abbiamo assistito alla nascita di un dibattito molto acceso sul revisionismo storico, che ha fatto risorgere l’orgoglio “duosiciliano” di chi non vuole più che il Regno Delle Due Sicilie sia descritto come arretrato e sottosviluppato di fronte agli altri regni preunitari. Ad accompagnare questo revisionismo inarrestabile, parole durissime nei confronti dei personaggi chiave dell’Unità d’Italia come Giuseppe Garibaldi, che passa da “eroe dei due mondi” a “massacratore di innocenti”.

Bisogna precisare, tuttavia, che alcune argomentazioni a favore della tesi che vede le Due Sicilie molto più avanzate di quanto “vogliono farci credere”, nascondono errori di ragionamento e tendono pertanto ad essere fallaci sia nel modo in cui sono articolate sia nel loro contenuto. Ecco due esempi: il primo è il primato dei Borbone nella costruzione della prima linea ferroviaria italiana, la Napoli-Portici del 1839 che copriva una distanza di 7.25km, mentre il secondo riguarda la superiorità igienica dei meridionali nei confronti delle popolazioni del Nord che si riassume con l’aneddoto dei soldati piemontesi che, arrivati alla Reggia di Caserta, trovarono oggetti a “a forma di chitarra” a loro praticamente sconosciuti, dei bidet. Sembrano entrambe delle argomentazioni molto convincenti, peccato però che alla vigilia dell’Unità le reti ferroviarie settentrionali fossero molto più fitte e lunghe di quelle meridionali, e peccato per i napoletani che pur avendo dei sovrani che ci tenevano all’igiene, vivevano in condizioni scandalose. Essere i primi a fare qualcosa, o avere qualche sporadica eccellenza, è poca cosa se poi, nel complesso, il sistema è malato. Altrettanto fallaci sono le vere e proprie battaglie che nascono sui social network e che vedono come protagonisti dei neoborbonici estremisti che difendono alcuni atti di criminalità che interessano le proprie terre facendo presente che anche su al Nord accadono le stesse cose (le frasi tipo sono “anche a Milano succede che…” e “Napoli? No, Milano!”). Queste affermazioni sono anch’esse molto fallaci, perché dire che qualcun altro ha dei problemi non rende i nostri meno gravi o meno importanti, e non li giustifica (fallacia logica del tu quoque).

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Le reti ferroviarie in Italia a paese unito, nel 1861. Si può notare che, nonostante la prima rete ferroviaria sia stata la Napoli-Portici tanto osannata dai meridionalisti, a questo primato non è seguito un piano di sviluppo concreto ed esteso a tutto il Regno delle Due Sicilie.

Quanto è stato scritto fino ad ora probabilmente ha irritato, e non poco, più di un meridionalista neobornico. Sia chiaro, qui non si vuole denigrare il Regno delle Due Sicilie in toto e, anzi, si riconosce che molte obiezioni dei “duosiciliani moderni” sono più che legittime (basti pensare a quanto è accaduto al Polo industriale di Mongiana). Tuttavia, si vuole far presente che, probabilmente, i veri problemi delle nostre terre non sono stati originati dalle politiche italiane postunitarie che avrebbero eclissato le eccellenze borboniche, ma da qualcosa di più atavico e radicato in noi: la mentalità non particolarmente propensa al progresso dei meridionali. Di cosa si tratta? Arriviamoci partendo dai presupposti sociali, politici ed economici della questione.

Piercamillo Falasca dell’Istituto Bruno Leoni ha trattato le luci e le ombre dell’Unità d’Italia analizzando la situazione nel suo complesso e difendendo l’Unità dai continui attacchi dei neoborbonici. Dal suo libro “Terroni 2.0 – Cambiare il Sud vivendo altrove“:

Nella vicenda di Civitella c’è, a spanne e grandi linee, un formidabile sunto di quel che fu il Risorgimento. Una pagina ingarbugliata della storia nazionale, in cui vincitori e vinti si confondono, ragione e torto si mescolano. Le tesi meridional-complottiste (che negli ultimi tempi hanno ritrovato smalto, anche grazie ad un fortunato saggio di Pino Aprile) servono solo a imbonire o ad infuocare i gonzi, facendo da pessimo contraltare a quel becero leghismo pseudopadano con le corna vichinghe.

[…]

Le modalità dell’annessione del Mezzogiorno al regno sabaudo non segnarono un momento fulgido nella storia nazionale, ma il loro prodotto – l’Italia unita – non fu peggiore, e forse fu migliore, di ciò che c’era prima.

Come ogni fenomeno complesso, anche l’Unità ebbe le sue ombre. Essa arrivò troppo tardi, quando lo Stato nazione come organizzazione politica e sociale aveva già sortito in Europa i suoi maggiori benefici e si apprestava a far esplodere il <> del suo lato deteriore, il nazionalismo come condotta politica delle dinamiche interne e nei rapporti internazionali. […] Gli italiani non vivevano bene sotto quei governi autoritari e anacronistici che guidavano gli Stati preunitari, primi fra tutti lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Per i siciliani re Ferdinando II di Borbone era ‘u ‘nfamuni, l’infamone. Il brigantaggio non nacque con l’arrivo dei piemontesi, esisteva endemicamente da secoli […]. I primi decenni del nuovo Stato infusero una buona dose di laicità nella società e nelle istituzioni.

Insomma, le luci del Risorgimento superano le ombre. Unita, l’Italia seguì finalmente il sentiero della crescita economica e civile dell’Europa, affrancandosi dal torpore post-rinascimentale. La scolarizzazione, la creazione di un mercato unico nazionale, le infrastrutture, la partecipazione politica, la secolarizzazione dei consumi: l’Unità non <<creò>> l’Italia (che per fortuna esisteva già), ma le consentì gradualmente di modernizzarsi.

[…]

Il Nord ha subito un inaccettabile drenaggio di risorse per sostenere il Sud, e il Mezzogiorno ha finito per restare strozzato da un impianto normativo e istituzionale non adeguato a una società ancora molto arretrata.

Borboni

Chi sa individuare i veri problemi del Sud e si attiva per poterli risolvere? Immagine di 9GAG.com.

Vogliamo fare qualche esempio pratico di difetti del Sud non imputabili al Nord o all’Unità d’Italia? Basti pensare ad argomenti un po’ “caldi” della società moderna, come l’innovazione, il senso civico e l’omofobia. In ambiti come questi, il Meridione d’Italia risente dell’eco di una mentalità feudataria tramandata dai Borbone, noti per le loro sporadiche eccellenze ma colpevoli di aver mantenuto un sistema del quale noi “sudisti” continuiamo a pagare il prezzo, un sistema medievale in cui non è possibile emergere, in cui il diverso è soggetto a ripetute discriminazioni, in cui un’innovazione tarda ad affermarsi proprio perché si è ancorati nel vecchio, nell’obsoleto, in tutto ciò che è sempre stato e che tale dovrà rimanere, eccetera eccetera. E’ colpa del Regno Sabaudo se nel Sud Italia si ragiona ancora così 150 anni dopo l’Unità? E’ colpa dell’Unità se un omosessuale al Sud riesce a malapena a vivere, o se un furbetto del cartellino riesce a farla franca fino a quando non viene scoperto dalle telecamere, e dunque incastrato?

Appellarsi ai presunti lussi del passato neoborbonico serve a poco o nulla se proprio i Borbone, con il loro regno feudatario, hanno tramandato fino a noi una mentalità che premia il clientelismo e l’assistenzialismo, esaspera i culti religiosi e le strutture sociali a base familiare, annulla l’imprenditorialità e contribuisce alla diffusione dei pregiudizi e della diffidenza (anche nei confronti dei propri compaesani). C’è chi, dal Sud, se ne va anche a causa della mentalità, e pensa/spera di non farci più ritorno, proprio perché la mentalità chiusa tende a bloccare tutto, impedisce ai giovani di realizzarsi, di portare e fare innovazione, di essere quello che sono. Forse è il caso di fare un sano mea culpa e di capire che, se proprio vogliamo cambiare in meglio il Sud, dobbiamo iniziare dalla testa di chi, nel Sud, ci vive, e mettere il revisionismo storico in secondo piano. Forse, cambiando le nostre teste prima dei libri di Storia, qualcosa cambierà davvero.

Francesco D’Amico

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