Questo articolo è uscito sul mensile il Lametino (n. 223) il 19 dicembre 2015.
Il problema dell’efficienza non può essere scaricato solo sui lavoratori
Stimolare i lavoratori di un’azienda verso l’efficienza e la produttività attraverso un vigoroso utilizzo del potere disciplinare. É quanto viene richiesto ai dirigenti di imprese del settore privato e, da qualche anno, anche a quelli del settore pubblico.
Nel tentativo di promuovere una “cultura manageriale” seguendo il modello americano, spesso ritenuto l’apice della produttività, si cerca di dare valore a due concetti fondamentali dell’economia moderna. Si tratta dell’efficacia, ovvero la capacità di raggiungere gli obiettivi che l’azienda persegue, e l’efficienza, ovvero la capacità di utilizzare il minimo delle risorse disponibili proprio per il raggiungimento degli obiettivi appena menzionati. Di per sé non ci sarebbe nulla di male, se non fosse per una certa esasperazione di questi concetti, portata avanti dalle politiche di azione delle varie imprese, per colpa della crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo. In realtà questa situazione spinge l’azienda ad operare secondo una visione riduttiva del problema, tanto che uno degli effetti perversi di questa crisi diventa proprio l’eccessivo concentrarsi su uno dei tre poteri di lavoro. Quest’ultimi sono rappresentati dal potere direttivo di impartire ai lavoratori le direttive per l’esecuzione della prestazione, dal potere di controllo o vigilanza della corretta esecuzione della prestazione lavorativa e dal potere disciplinare che stiamo esaminando. Si collega al già citato potere direttivo e consiste nel punire il lavoratore – con delle sanzioni disciplinari – dopo aver verificato il mancato adempimento della prestazione lavorativa. É chiaro che non possiamo entrare in merito alle dettagliate leggi in vigore in materia di diritto del lavoro, che rappresentano un grande aiuto alla dignità del lavoratore, ma possiamo certamente richiamare il senso del potere disciplinare. Se da un lato lo stesso risulta essere punitivo, dall’altro deve essere sicuramente educativo, tanto che le sanzioni disciplinari del nostro codice civile – che appunto possono essere combinate dal datore di lavoro – devono seguire un principio molto importante: quello della “proporzionalità” tra l’infrazione e la sanzione disciplinare applicata. Ecco, il nostro codice prevede questo rimedio proprio contro la possibile invasività del potere disciplinare. In tempi di crisi, dunque, quando le cose non vanno bene dal punto di vista economico-finanziario, le imprese non possono e non devono dimenticare questo principio e, soprattutto, l’elemento educativo. L’obiettivo che deve porsi il dirigente che, grazie al suo ruolo, ha la possibilità di esercitare parte dei poteri disciplinari, è proprio quello di seguire il principio educativo.
La sanzione, per un lavoratore, ha un valore punitivo ma soprattutto educativo. Il punto è di fondamentale importanza, perché bisogna puntare a educare il lavoratore ad essere più efficiente e a produrre di più. É ovvio che considerazioni analoghe possono essere compiute, mutatis mutandis, sia per i dirigenti del settore privato che per quelli pubblici. Questi ultimi, tra le altre cose, sono anche appesantiti dal problema della macchina burocratica statale, nonché dall’ulteriore problema della pervasività della politica nel loro ruolo. Non va assolutamente dimenticato, infatti, che l’obiettivo di separazione tra l’amministrazione e la politica, sulla base di un globale disegno riformatore che ci portiamo dietro dagli anni novanta, è rimasto largamente irrealizzato. Stiamo parlando di qualcosa di irrealizzabile per sua natura, visto che si è tentato di portare la dirigenza ad assumere un’effettiva autonomia rispetto al potere politico, proprio nella gestione degli apparati amministrativi. Prescindendo dalla capacità dei vari dirigenti di rivendicare questa necessaria indipendenza nello svolgimento del proprio lavoro e quindi nell’esercizio delle proprie funzioni dirigenziali, rimane evidente il problema della atavica ingerenza della politica nella gestione amministrativa. Per anni si è cercato di dividere ciò che era di competenza del vertice politico da quello che riguardava i dirigenti, con scarsi risultati in merito.
Ad ogni modo, sia che si tratti di privato o che si parli di pubblico, il potere disciplinare non si deve avviare verso un suo esercizio inflessibile, perché si tratta di un potere molto importante e delicato. Gli studi portati avanti dagli esperti di organizzazione aziendale, infatti, dimostrano come un esercizio inflessibile del potere disciplinare non è sufficiente – e indicato – a sviluppare nei lavoratori un atteggiamento attivo. Proviamo dunque a stimolare i lavoratori diversamente, cercando nuovi metodi di collaborazione, magari spiegando ai nostri lavoratori che il maggior numero delle loro conoscenze è spesso inespresso. In tal senso il focus si sposterebbe dall’idea di punire a quella di educare.
Antonio Mirko Dimartino