Frank O’Hara: the Urban Poet

Questo articolo è uscito sul mensile il Lametino (n. 247) il 13 aprile 2019.

Il genio artistico del diario poetico

Francis Russell “Frank” O’Hara (1926-1966), è stato un poeta, scrittore e critico d’arte statunitense. Il suo lavoro di curatore presso il Museum of Modern Art, lo aveva portato inevitabilmente ad essere un personaggio di spicco nel mondo dell’arte di New York. O’Hara era anche membro della N. Y. School, un gruppo di artisti che traevano le loro ispirazioni dal jazz, l’espressionismo astratto e l’action painting. I suoi studi furono prevalentemente letterari, ad Harvard si laureò in Inglese nel 50’. Affascinato dal mondo delle arti visive e dalla musica contemporanea, apprezzava autori come Rimbaud, Mallarmé, Pasternak. Conosciuto da centinaia di amici e amanti per la sua espansiva calorosità, O’Hara iniziò a scrivere seriamente in seguito all’assunzione al Museum of Modern Art.

La poetica O’Hariana, sebbene riflettesse tratti autobiografici, era impregnata fortemente di vissuti quotidiani e frenetici della sua New York. Il tempo passato dal poeta in gioventù, prima alla scuola cattolica e poi in marina, gli fece sviluppare un way of writing solitario e astratto che egli in seguito rifletté nelle sue poesie. La geniale qualità dello scrittore era quella di sapersi estraniare balenamente dalle situazioni e, afferrandone gli aspetti più singolari, saperseli appuntare velocemente su taccuini per poi utilizzarli in scritti successivi o addirittura nelle lettere. Questa abilità di scrutare e registrare durante il trambusto della vita quotidiana sarebbe diventata, in seguito, uno degli aspetti più importanti che hanno caratterizzato O’Hara come un poeta urbano che scriveva a braccio. Così era la vita artistica del poeta: “sputare fuori poesie in momenti del tutto assurdi: nel suo ufficio al MoMA, in strada all’ora di pranzo e addirittura in stanze piene di gente, per poi metterle via in cassetti e dimenticarsele”.

Nel 1959 scrisse un finto manifesto chiamato Personism in cui spiega la sua posizione sulla struttura formale: “Non mi piacciono il ritmo, l’assonanza, tutte quelle cose. Fanno venire il nervoso, per quanto mi riguarda, la metrica e gli altri apparati tecnici, sono solo questione di buon senso: se compri un paio di pantaloni, vuoi che siano abbastanza stretti così tutti vorranno venire a letto con te. Non c’è niente di metafisico in questo”.

Un calice poetico astratto e urbano, quello di O’Hara, colmo di pregiato vino surrealista e simbolista da bere tutto d’un fiato ovunque ci si trovi: per strada, a casa, mentre si balla, si ride, si piange, perché no, mentre si sogna. I suoi toni dai contenuti personali, fanno in modo che la sua poetica venga descritta come “leggere pagine di diario”. Il poeta e critico Mark Doty sostiene che la poesia di O’Hara è ironica, a volte genuinamente celebrativa e spesso selvaggiamente divertente”. Un geniale materiale di paesaggio quotidiano di attività sociale a Manhattan, musica jazz, telefonate di amici. Scrivendo, O’Hara ha cercato di cogliere nelle sue poesie l’immediatezza della vita, convinto che la poesia dovrebbe essere “tra due persone, non tra due pagine”. Maestro di spontaneità e casualità, l’autore vinse il National Book Award per la poesia con la raccolta postuma The Collected Poems of Frank O’Hara, pubblicata nel 1971. Tra i suoi scritti più noti: A City Winter and Other Poems (1952), Oranges (1953), Meditations in an Emergency (1957), Second Avenue (1960), Odes (1960), Lunch Poems (1964), Love Poems (1965). O’Hara morì nel 1966 a Fire Island, investito da una Dune Buggy a soli 40 anni.

Matilde Marcuzzo

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