Una licenza moderna e amena
Qualche giorno fa, mentre Milano stava vivendo un’orgia che tutti sapevano che ci sarebbe stata, ma che, purtroppo, nessuno si aspettava – e quindi tutti a cercare preservativi e pillole e diaframmi a destra e a manca –; qualche giorno fa, mentre a Taranto il concerto alternativo diventava il principale e Roma cercava di eguagliarlo con una o due bandiere rosse sfuggite ai controlli –; qualche giorno fa assistevamo al simpatico, divertente, giovanile, festoso, scherzoso, gioioso, vitale, moderno, nuovo, fico, cool… scempio dell’inno di Mameli. Ora, al di là del fatto che questo benedetto inno possa valere o non valere qualcosa, possa piacere o non piacere e quant’altro – non è certo questo il punto – questa cosa qui che è accaduta ci si impone di fronte alle narici. Questa cosa che può sembrare una piccola e utile variazione sul tema ci dovrebbe un attimino far riflettere. Magari mettiamoci davanti a un caffè, o a una più moderna Coca Cola va, e vediamo che ne esce fuori.
Insomma, questi scolaretti simpatici, di bianco vestiti, ingenui (e l’ingenuità e la sincerità dànno speranza), si sono messi e, col loro candore spensierato, hanno cantato il nostro inno nazionale. Sì, quello delle partite insomma… Ecco, a un certo punto li senti che “cavolo, c’è qualcosa che non va… cioè i calciatori non lo cantano così” – a un certo punto vedi che fanno “Siam pronti alla vita/l’Italia chiamò!”. Ma scusa un attimo, davvero così faceva?

“Siam pronti alla vita”
Il nostro Inno, quello risorgimentale, scritto quando si decise di lottare per unire il Paese (interessi economici più, interessi economici meno), e questa lotta è stata sanguinosa e allora tu rischiavi davvero di morire per questa cosa in cui credevi e giustamente dicevi, urlavi “Siam pronti alla morte/l’Italia chiamò”… e ora lo senti diventare “Siam pronti alla vita”. E lo dicono dei bambini, col loro candore e la loro gioia di vivere. Ma come fai a non amarli? Così carucci…
E subito la cosa prende piede e il problema della morte lascia spazio al problema della vita. Anzi, al non-problema della vita. Perché per essere vivi bisogna essere pronti, ché nessuno nasce già vivo. E noi ce lo meritiamo allora! E ci meritiamo le frasi a effetto alla Bar***o (censuriamo va, ché non è questo il punto, ora) che ci insegnano queste cose. E continuamente confondiamo l’ovvio col banale, e il banale diventa la grande scoperta del secolo, facendo passare l’ovvio in secondo piano, mantenendolo superficiale, ovvio appunto, così non fa problemi. Allora, il fatto di vivere diventa uno slogan, una variazione, una licenza che serve ad aprire il Grande Evento Mondiale (organizzatore corrotto più, organizzatore corrotto meno). Allora mettici un gruppo di dolci e carucci bambini, di’ loro che è meglio dire “vita” anziché “morte”, senza spiegar loro altro… e il gioco è fatto. Loro si sono divertiti, il pubblico ha apprezzato, gli applausi ci sono stati e il Grande Evento Mondiale ha avuto inizio (placca in testa più, placca in testa meno)!
Guardavo questi poveri bambini che si divertivano a cantare e a storpiare – pardon – ringiovanire l’Inno. A loro pareva un gioco. E come gioco gliel’hanno presentato. Giocate e divertitevi! E divertitevi ancora! Così lasciate il pubblico contento! E il pubblico diventa contento a guardare questi candidi bambini a cantare così gioiosamente l’Inno e viene voglia anche a te di mettere la mano al petto e dire “Sì! Siamo pronti alla vita!”… E, mentre io vedo che il ghiaccio nella Coca Cola si scioglie penso: “Ma è giusto?”, tu entri nel Grande Evento Mondiale e guardi vivere questa vita. E questa vita te la spiattellano davanti: “Questa è!”. E i bambini canteranno “Siam pronti alla vita!” e così d’ora in poi. E una piccola variazione sul tema diventa normale e manco te ne accorgi. E allora diventa nostra. La variazione prende il posto dell’originale, diventa norma. E io, cavolo, sono diventato vecchio e manco me ne sono accorto. Il tempo dello sciogliersi del ghiaccio.
Tragica prospettiva, ma vorrei riflettere un attimo. Da quando è diventato normale l’uso di tweet per annunci seri? Da quando il social network, che tu usavi per sentire un* car* amic*, per provarci con qualcun*, organizzare una festa… è diventato la piattaforma politica prima? Da quando le parole che leggevi nella letteratura (si fa per dire) più pop e smielata sono diventate il gergo tipico di chi ci rappresenta? Ma poi: come ci si può permettere di usare questi bambini per pubblicizzare in maniera così infima un evento? Come ci si può permettere di usarli? E di usarli per questi scopi propagandistici poi… Magari i bimbi si saranno pure divertiti, l’avranno trovata un’esperienza piacevole. Ma già vedo chi li ha fatti provare e riprovare inculcando loro l’idea che “è meglio dire vita anziché morte”. E i bambini a sforzarsi di imparare così, e quindi poi l’Inno diventa così per loro.
Se ti presentano sempre lo stesso piatto, volente o nolente, ti ci abitui. Se ti dicono che questo è l’unico piatto sul menù, tu questo ti prendi. Soprattutto se non sai dove cercare il ristorante alternativo… e poi: hai visto questi ristoranti alternativi come sono brutti e cattivi e i camerieri vanno in giro a distruggere tutto? – Una protesta seria che viene persa di vista, silenziata e l’attenzione è spostata sulla degenerazione, che poi degenerazione non è ma è tutta un’altra cosa –. E allora, se il piatto è questo, è giusto che il grande imprenditore del cibo ti dica: “Devi fare sacrifici se vuoi lavorare! E quindi il sacrificio è: ti pago di meno”. E no, caro mio, se devo fare sacrifici io, falli pure tu: pagami! Che gran sacrificio, pagarmi il giusto! Ma questo è un altro discorso.
Ma se accettiamo tutto, se accettiamo che i bambini si divertano storpiano a fini propagandistici, pubblicitari e così via il nostro Inno, se accettiamo questo piatto e ingurgitiamo, se per noi è giusto “questa è la minestra o quella è la finestra”, allora, mi dispiace, ma non sappiamo neppure dove sta di casa la “democrazia”.
Ci sarà da divertirsi, in questa nuova pagina. La prossima volta, quando sarà, approfondiamo di più.
A. Ve.
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