Questo articolo è uscito sul mensile il Lametino (n. 245) l’1 dicembre 2018.
I tre passaggi della mente nel comprendere le potenzialità e gli errori sul nostro patrimonio
“Potremmo campare col solo turismo artistico”: quante volte abbiamo sentito, letto, scritto o detto questa frase? Che l’Italia abbia un patrimonio incommensurabile sfruttato solo parzialmente in termini di indotto turistico ed economico, è talmente arcinoto da essere forse una delle poche verità italiane conosciute da tutti, a prescindere dalla provenienza geografica e dal titolo di studio. Una condizione di sfruttamento parziale delle nostre peculiarità artistiche e architettoniche che risulta di fatto immutata nel tempo, se non con deboli oscillazioni positive o negative a cadenza annuale.
Nel percorso formativo, lavorativo e sociale del cittadino italiano, si vivono alcune fasi di approccio a questa “verità assoluta”. Nella prima fase, quella prettamente formativa e di studio, associata alla scuola dell’obbligo e al percorso di formazione universitaria, si imparano a conoscere queste ricchezze, ci si forma nell’essere italiani come eredi di un retaggio unico al mondo, si impara a fondere la propria identità personale con la storia dell’arte dello stivale. Nella seconda fase, potremmo dire di “sveglia” oppure di “osservazione”, l’italiano che inizia pian piano ad affacciarsi al mondo del lavoro e ne carpisce le enormi complessità, si chiede il perché di quel potenziale non sfruttato tra tante opere e ricchezze sparse praticamente ovunque nel territorio, mentre solo le grandi eccellenze artistiche diventano delle vere e proprie icone del turismo d’arte in Italia. E’ vero che gli Uffizi non sono come un qualsiasi castello normanno-svevo dei comuni meridionali che possono vantare di averne uno, ma è anche vero che gli Uffizi riescono a capitalizzare la loro eccellenza artistica in ambito economico, mentre di castelli lasciati praticamente in rovina ce ne sono veramente tanti. La domanda che nasce spontanea è sempre la stessa: “perché? Perché ci facciamo battere gli americani che trasformano una qualsiasi traccia della storia recente degli ultimi due secoli in grandi musei, mentre noi non riusciamo a valorizzare patrimoni millenari?”.
Il cittadino italiano arriva così alla terza e ultima fase, quella della “rassegnazione” che lo accompagnerà per il resto della sua vita, la quale si articola secondo due distinte vie. La prima via della terza fase vede un completo abbandono, da parte del cittadino, delle ideologie precedentemente acquisite: curare il patrimonio artistico per renderlo economicamente fruttuoso “non conviene”, perché “non si campa di solo turismo” e “ci sono cose più importanti nella vita da fare prima”. Insomma, diventa non propriamente inutile ma “diversamente utile”, ossia tende ad occupare un posto basso nella lista delle priorità collettive assolute. La seconda via della terza fase, in altre menti, porta invece alla rassegnazione del pensare che l’Italia non sia meritevole del patrimonio lasciato dai predecessori di chi la abita: si può continuare a parlare ad nauseam di nuovi progetti di recupero e valorizzazione, ma la cosa si chiude lì, si limita al solito siparietto della politica e non scaturisce in azioni concrete. La voglia di dare un vero valore a cose che altrove nel mondo ci invidiano c’è, ma non è portata avanti da una massa critica della popolazione tale da forzare un cambiamento virtuoso nei processi in atto. Il tutto, quindi, diventa un ciclo di pensieri e opinioni che cambiano nel corso della vita e a seconda delle persone coinvolte, un turbinio di frasi fatte e scene trite e ritrite che probabilmente accompagneranno la nostra società per qualche altro decennio.
Francesco D’Amico