Questo articolo è uscito sul mensile il Lametino (n. 230) il 10 dicembre 2016.
Spesso lasciamo che le grandezze del passato ci rendano ciechi nel presente?
Bella questa Italia, bellissima: patrimoni artistici e culturali da record, paesaggi e clima estivo da paura, spazio anche per il turismo invernale, attrattive sportive e potenza economica (un po’ a macchia di leopardo) tale da far meritare l’accesso al G7, ex G8. Tra le mille difficoltà che viviamo, spesso si critica il nostro paese a priori, e lo si fa ignorando le sue grandi ricchezze, molto ambite e apprezzate. Molto più spesso, invece, critichiamo altre nazioni basandoci su considerazioni più o meno fallaci e frutto di quello che il nostro sistema scolastico ha insegnato a tutti noi. Fondamentalmente, non facciamo altro che esasperare al massimo l’importanza storica della Magna Graecia, dell’antica Roma e del Rinascimento, e utilizziamo queste tre eccellenze nostrane come paragone per giudicare gli altri. Non limitandoci a questo, escludiamo fattori molto importanti: che ci piaccia o no, aspetti come la potenza militare di un dato paese sono da prendere in considerazione nel grande scacchiere chiamato Terra.
Quando ci relazioniamo con gli altri, applichiamo un sistema di valutazione più unico che raro che ci rende “eccellenti” da un lato ma “razzisti” e “ignoranti” dall’altro. Qualche esempio? I tedeschi, popolo super disciplinato ed educato, dedito al lavoro e con un recente passato di ricchezze ed egemonia politica, è ai nostri occhi un “popolo di barbari” perché due millenni fa il gap culturale tra l’antica Roma e le tribù germaniche era altissimo. Gli australiani, altro popolo di eccellenza e caratterizzato da un bassissimo tasso di criminalità, hanno un giudizio alterato dal fatto che l’Australia, secoli fa, altro non era se non una colonia penale dell’impero britannico: un popolo “senza storia” figlio di un impero “altrettanto senza storia”. Gli americani, che praticamente dominano il mondo, sono un altro esempio di popolo “senza storia”, eredi di poveri emigranti. Un giudizio simile è riservato agli Emirati Arabi e ai loro abitanti, che hanno costruito un nuovo impero economico “senza storia”. Ma siamo sicuri che è così che funziona il mondo? Siamo sicuri che, nelle grandi relazioni internazionali, nella geopolitica e nell’economia, si va a vedere il background storico di un paese anziché il lato più pragmatico e attuale del paese stesso?
Per rispondere a queste domande, andiamo a cercare il pelo nell’uovo, ossia popoli e nazioni caratterizzati da un passato glorioso, ma che oggi hanno un ruolo molto ridimensionato. Basti pensare all’Iraq, la culla della civiltà mesopotamica millenni e millenni fa, e allo stato in cui versa ora; basti pensare all’Egitto, caratterizzato da una delle più importanti civiltà dell’antichità (il lasso di tempo che separa noi dagli antichi romani è lo stesso che separa gli antichi romani dal culmine dell’antico Egitto), ora vittima di profonde spaccature interne e da tempo messo da parte dal grande scacchiere internazionale; basti pensare alla nostra cara e vicina Grecia, che si è lasciata da tempo alle spalle le eccellenze culturali elleniche. Un esempio ancora più vicino? Il meridione d’Italia, che poco ha a che fare con la Magna Graecia che tanto ostentiamo, e basa il suo retaggio culturale (la mentalità, in primis) sul feudalesimo medievale.
Ebbene sì, e questo non fa altro che marcare un altro problema del “razzismo storico all’italiana”: nel valutare il presente utilizzando il passato, oltre a ignorare il presente stesso, ignoriamo anche tutto quello che lo separa dal passato preso in esame. Nel caso del sud del nostro paese, ignoriamo i secoli bui che hanno seguito la Magna Graecia, e coi quali ci ritroviamo ancora oggi a confrontarci. Della nostra cara Italia, ignoriamo le ripercussioni di secoli e secoli di spaccature interne, molto più influenti sulla nostra società dell’eredità romana e rinascimentale. Insomma, siamo così presi da alcune parentesi della complessa storia della civiltà umana, da diventare ciechi e guardare un presente distorto.
Francesco D’Amico