Questo articolo è uscito sul mensile il Lametino (n. 230) il 10 dicembre 2016.
Il miliardario tycoon americano vince sulla rivale Hillary Clinton. Il tonfo dei sondaggi
Fin dall’inizio, la campagna elettorale presidenziale americana appena conclusa è stata etichettata come una delle peggiori, se non la peggiore, in assoluto; povera di contenuti, ricca di insulti e attacchi reciproci, condita con l’intervento finale dell’FBI in merito alla vicenda delle e-mail top secret inviate dalla Clinton con la sua e-mail personale. Alla fine, incredibilmente, è stato Donald J. Trump a spuntarla: il miliardario americano sarà il 45° presidente degli Stati Uniti d’America.
Dal principio sino a poche ore dall’ufficialità della vittoria Trump, i sondaggi davano la signora Hillary in testa, ipotizzando addirittura una vittoria con largo vantaggio: nei fatti, invece, si è verificato il contrario. Ancora una volta, dopo la vicenda Brexit, i sondaggi si dimostrano incapaci di percepire le intenzioni di voto di una società sempre più spaccata e divisa.
“Trump Triumphs”, titolava il New York Times il giorno dopo la vittoria, “La sua vittoria è uno smacco umiliante per i mezzi d’informazione, per gli istituti di sondaggi e per il gruppo dirigente dei democratici, dominati dalla Clinton”. Appare immediatamente chiaro, dopo l’analisi del voto, che grazie all’insoddisfazione degli elettori americani, soprattutto negli stati centrali da sempre ritenuti a prevalenza conservatrice, dovuta alle delusioni che gli stessi elettori attribuiscono all’amministrazione Obama, Trump ha portato la sua etichetta di outsider fino alla Casa Bianca.
Sprezzante dell’elite radicalizzata a sinistra, profondamente critico verso Washington, acceso sostenitore del settore manifatturiero e di quello militare, il tycoon ha sconvolto i sondaggisti, cavalcando un’ondata in parte scatenata dagli elettori rurali e della “rustbelt” deindustrializzata e convinta che l’establishment politico l’avesse messa da parte. La sconfitta di Hillary Clinton è un terremoto politico di un’entità che si vede di rado nella politica americana, che non succedeva da quando vinse il candidato Andrew Jackson, sconvolgendo l’ordine costituito. L’establishment politico e mediatico è disorientato e i mercati sono in agitazione, e non c’è dubbio che lo è anche una parte degli elettori, anche se lo stesso presidente eletto ha invitato tutti alla cooperazione ed inevitabilmente anche i sostenitori più accaniti della Clinton dovranno attenersi all’esito delle urne.
Questo “terremoto” politico è stato talmente scioccante per i media americani che secondo Kyle Smith, editorialista del New York Post, la vittoria di Trump può essere definita addirittura “punk”: “Trump non solo ha mandato all’aria i manuali elettorali, ma gli ha dato fuoco. E all’America è piaciuto da morire. Essere punk è l’arte di salire sul palco senza nessuna preparazione e strillare: sono io contro il resto del mondo, e che cavolo potete farci?” La nuova presidenza determinerà anche un profondo cambiamento della politica estera americana: a tremare sono, in primo luogo, il Messico e la Cina.
Più volte il presidente eletto ha minacciato di voler realizzare un immenso muro per separare gli Stati Uniti dal Messico, a spese dei messicani; questa argomentazione, fortemente apprezzata dagli americani più radicalizzati a destra, è supportata dall’ipotesi di bloccare l’immigrazione clandestina al fine di preservare i lavoratori americani. La Cina, invece, teme di perdere i privilegi acquisiti a seguito della ratifica dell’accordo transpacifico di scambio e, conseguentemente, un notevole ritorno economico. Paura tale che la Foxconn, società che produce in Cina l’hardware per gli iPhone, ha avviato uno studio di analisi finanziaria per spostare parte della produzione direttamente negli USA. Chi certamente gongola, infine, è Vladimir Putin: il presidente russo da sempre ha lamentato contrasti e frizioni con l’amministrazione Obama, come evidenziato dallo stallo dello scenario siriano. Trump, tuttavia, da sempre ha manifestato idee più attinenti a quelle dell’omologo russo, e Putin è stato il primo capo di stato a telefonare al neo presidente per complimentarsi per l’elezione.
Ciò che verrà, senza dubbio, è di difficile previsione: l’unica certezza è quella di non affidarsi ai sondaggi poiché, come dimostrato, sono totalmente inidonei a prevedere le intenzioni dei votanti.
Paolo Leone