Insulti e razzismo: il peggio del calcio italiano

Questo articolo è uscito sul mensile il Lametino (n. 224) il 20 febbraio 2016.

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Tutti i limiti di uno sport che non riesce più a trasmettere valori educativi

Una settimana molto difficile per il calcio (ed il movimento sportivo italiano in generale) si è appena conclusa, generando un turbinio di polemiche i cui strascichi si trascineranno ancora per lungo tempo. In sintesi, durante la partita Napoli – Inter valida per gli ottavi di finale di Coppa Italia, l’allenatore del Napoli Sarri ha aspramente epitetato il collega interista Mancini, dandogli del “frocio” e “finocchio”. Qualche giorno dopo, durante la partita di campionato Juventus – Roma, il calciatore giallorosso (e colonna della nazionale) De Rossi si è rivolto all’attaccante croato della Juventus, Mandzukic, che si lamentava per un presunto fallo subito, con queste parole: “muto, zingaro di m…”

Da questi fatti, possiamo trarre diverse conclusioni. Il calcio italiano, in primo luogo, ha ormai perso la sua natura di sport: esso è ormai diventato uno “spettacolo” volto a soddisfare esclusivamente la sete di vittoria dei supporters. Vincere è l’unica cosa che conta, e valori quali il rispetto dell’avversario, il saper perdere o vincere, la sana competizione sono stati lentamente dimenticati. Gli addetti ai lavori (giocatori, allenatori e talvolta i dirigenti) sono ormai privi di qualsiasi valore etico o culturale che gli consenta di essere un modello per chi guarda: sono asserviti al dio denaro, cambiano squadra in continuazione andando dove la remunerazione è maggiore, nessuno “ama” la maglia come i giocatori delle generazioni passate. Prescindendo dai titoli di studio, poiché non necessariamente un diploma o una laurea significano che la persona titolata sia di valore, questi soggetti mancano totalmente della capacità di comprendere che molte persone, bambini e ragazzi in particolare, li prendono come modelli da seguire; ogni loro errore comportamentale assume dunque notevole rilevanza.

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Sarri Mancini

Le peggiori connotazioni della società contemporanea, terzo, trovano amplificazione in questo mondo privo di regole: omofobia e razzismo filtrano senza limiti e controllo. Questo crogiolo di nefandezze comporta inoltre che buona parte dei “tifosi” o “ultras” sia alquanto violenta e pericolosa: moltissime volte assistiamo a scontri tra tifoserie ed altri comportamenti violenti, azioni che si direbbero di guerriglia piuttosto che di sport. Le stesse regole, in ultima analisi, che governano il gioco del pallone in Italia, sono insufficienti ad assicurare una tutela della parta sana del calcio; altre volte le norme, presenti e severe, vengono aggirate o non applicate: così l’allenatore che usa parole razziste viene squalificato solo due giornate invece che quattro mesi, il giocatore omofobo non può essere sanzionato perché la prova televisiva si applica a fattispecie violente, ma non antisportive o scorrette. Come superare dunque questi limiti? Semplice: copiare i Paesi dove il mondo dello sport funziona, ovvero USA, Inghilterra e Germania.

Norme severe, rigide e requisiti comportamentali massimi, sia per i giocatori, sia per i dirigenti (nella NBA americana il presidente di una franchigia è stato obbligato a vendere la squadra poiché accusato di espressioni razziste); stadi più piccoli e facilmente controllabili, divieto di fomentare gli ultrà organizzati. Occorre infine responsabilizzare gli stessi giocatori: essi sono i nuovi gladiatori, modelli cui molti si ispirano. Come si può pretendere che il tifoso sia corretto e sportivo se il calciatore stesso non lo è?

Paolo Leone

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