Qualche riflessione senza senso
Fino a un certo punto è fastidioso essere quello che dissente continuamente. Ma solo fino a un certo punto. Perché tu lo sai che se fai “sì” con la testa allora subito ne fai parte. E farne parte significa delineare la propria esistenza nella maggioranza. Di comizi non ne voglio sapere. Arringare le folle e sentire scrosci di applausi e “bravo”, tecniche retoriche di sconnessione… magari ci credi pure a quello che dicono, e magari loro stessi ci credono. Ci siamo abituati, a questo dubbio.
Quando inizia la campagna elettorale e l’entusiasmo, e noi siamo la novità e queste cose lasciatele da parte. I vostri progetti… sono unitari? Il progresso, il lavoro, le tasse… queste sono parole pesate? Prendiamo “progresso”: che cosa s’intende? Fino a che punto il progresso è tale? E poi quando diventa qualcos’altro? Magari capita che non è progresso, ma tu, che lo stai proponendo, sei convinto che lo sia. Attenzione: qui non stiamo cadendo in uno stupido relativismo con il quale giustificare tutto perché tutto è relativo (il paradosso più grande, ossimoro spacciato per non retorico). No. Questo è altro: questo è voler approfondire la questione: ma lo sai cosa vuol dire quello che dici? Hai un’idea specifica? A cosa ti riferisci?
“Progresso” non è il mero e semplice aver la vita più agevolata dall’avanzamento della tecnologia. “Progresso” non è l’enorme quantità di cantieri, il girare dell’economia e siam tutti più ricchi. C’è ben altro dietro questa parola. C’è un progetto comune, c’è il migliorarsi. Ma, per favore, non buttiamola sempre sui soldi, che l’averne di più mi fa avere una macchina migliore, e basta. Una casa migliore. E basta. Un tenore di vita migliore. E basta. E tutte queste cose, queste infinite cose. Cose e basta. E, per favore, non rispondetemi: “Allora stai tu senza mangiare” e così via. Non c’entra: non si tratta di fare la fame, si tratta di non scoppiare. Ma tu ci pensi che tutte queste cose che tu hai quello che ti sta affianco non le può avere? E perché non può averle? Per favore, anche qui, non spararmi la risposta che ti viene in mente senza pesare le parole: “Che vada a lavorare”. Qua la questione non è il “vada a lavorare”, qua la questione è che è solo, è lasciato solo. E tu, io, tutti lo abbiamo lasciato solo. Ma ci pensi al fatto che con la tua individualista risposta lo stai lasciando solo? E ci pensi al fatto che la tua individualista risposta ti sta lasciando solo? Guarda che il mondo nel quale stai vivendo non è che è la folla da arringare. Il mondo non è la folla, non è la massa, non è l’economia che gira, il PIL, il debito e così via. Queste cose sono cose create, frutto di una cultura: fanno parte del mondo ma non sono del mondo. Ma, tu ci pensi che non è naturale che sia così? E, se qualcosa non è naturale, allora non è l’unica cosa possibile. Ma, tu ce l’hai un’alternativa? Io penso questo: che la politica debba essere sempre un’alternativa, perché deve cambiare l’esistente in vista di un progetto unitario che possa farci stare meglio tutti come cittadini. Penso che io non sia un esperto in materia (ma toglietemeli dai piedi, gli “esperti in materia” – ne riparleremo), e che questo “Io penso” qui e la non sia un’opinione notevole, né un pensiero intelligente: si tratta di un mero, semplice, banalissimo sfogo che qualcuno leggerà, forse. Penso che una semplice opinione non dimostri nulla. Ma penso anche che l’alternativa delle cosiddette prove oggettive, certe, scientifiche del mondo-così-come-è debba partire da qui: perché se vuoi cambiare il mondo, innanzitutto devi mettere davanti ai tuoi occhi il mondo, e non le cose, e non le cose che tu hai creato su di esso. E, forse, allora, l’opinione alternativa può prendere valore.
La politica, la solitudine e l’alternativa. Tre parole che qualcuno dovrebbe pesare. La prossima volta, forse, parleremo di una di queste. E così via.
A. Ve.