Spunti e riflessioni sulle prospettive del settore artistico e di chi ne fa parte
La possibilità dell’apprendimento musicale nei suoi principi tecnici storici e filosofici ha raggiunto nella nostra epoca un notevole numero di ceti sociali, liberando forme d’espressione variegate alla quale creazione ha contribuito di pari passo il progresso tecnologico (penso, ad esempio, a tutta la musica creata con l’ausilio del computer e dei mezzi elettronici). Eppure, nonostante questa diffusione di cultura, nonostante questa esplosione di creatività, il mestiere del musicista rimane ancora appannaggio di poche persone lasciando la maggior parte degli operatori del settore a sostentarsi principalmente tramite l’insegnamento o, peggio ancora, con lavori non strettamente connessi alla materia.
In un mondo che dovrebbe tendere ad affidare il lavoro meccanico esclusivamente alle macchine per poter permettere all’umanità di dedicarsi completamente al pensiero intellettuale e artistico, toccando in tal mondo un vertice nell’ evoluzione, il problema della musica come “mestiere” risulta un punto cruciale e va affrontato da diversi punti di vista. Comincerei con l’osservare l’aspetto dell’ istruzione musicale che di fatto rappresenta il mezzo principale di sostentamento (o quanto meno un mezzo alla quale non si può rinunciare) di strumentisti e compositori. Si riscontra sovente la realtà paradossale in cui l’insegnante non svolge attività concertistica o compositiva (o la svolge in quantità e qualità irrisorie) e tuttavia insegna a un numero considerevole di allievi. Similmente, questi ultimi a loro volta insegneranno determinando un sistema in cui viene insegnato ad insegnare eliminando perfino dalle aspirazioni dello studente la prospettiva di una partecipazione attiva alla vita concertistica o creativa.
Avviene così che anche i professori di musica arrivano a diffondere il concetto secondo la quale “con la musica non si campa” intendendo con “musica” aspetti fra i più significativi di essa come, appunto, il suonare e il creare musica. Ora, sebbene le difficoltà nel sostentarsi seguendo queste ultime due vie siano evidenti a tutti, insistere su di esse o addirittura asserire che riuscirci sia impossibile è culturalmente colpevole in quanto indirizza una figura in stadio di crescita (lo studente) a una visione impotente e frustrata di ciò che ha scelto. Risulta inoltre colpevole a fronte del fatto che seppur poche persone vivono dei propri concerti o delle proprie composizioni, la loro esistenza è evidente a tutti e quindi l’aspetto più importante da comprendere è il motivo per cui loro riescono dove tutti gli altri falliscono.
Questa frase potrebbe essere interpretata come un elogio di chi effettivamente fa della musica il proprio mestiere, ma racchiude in sé un altro aspetto fondamentale del problema: perché in un mondo dove si fa fatica ad avere anche poco introito dall’attività musicale esiste un numero relativamente limitato che ne ha fatto un business con entrate importanti? Facilmente a questa domanda viene tirato in causa il merito, le capacità tecniche o le condizioni emotive che l’artista preso in considerazione riesce a creare. Bisogna affrontare questi aspetti separatamente ma alla luce di un principio comune: la musica che rappresenta esclusivamente se stessa. In effetti, uno degli aspetti più evidenti che manca nell’approccio alla musica oggi (e alla musica di oggi) è la ricerca di un oggettività che permetta un fluire sano dell’attività lavorativa nel settore. Partendo dal concetto espresso da Eduard Hanslick secondo la quale la musica non rappresenta altro che se stessa, possiamo facilmente arrivare alla conclusione che essa non può essere giudicata se non dai suoi elementi costitutivi lasciando l’emotività (che è un dato profondamente soggettivo) fuori dai criteri di valutazione. Esattamente il contrario accade in molti ambiti della musica leggera nella quale spesso viene avanzato il principio di legittimità sopracitato della capacità di emozionare l’ascoltatore. Essendo questo effetto decisamente soggettivo, non può essere elevato a condizione di selezione e pertanto non sono legittimi tutti i contesti in cui esso viene applicato. Tengo a precisare che parlo di contesti in cui le selezioni comportino movimenti economici in quanto preferire nel privato una musica o un artista piuttosto che un altro è assolutamente legittimo. Va dunque sradicato dalla cultura, dunque, il mito della valutazione condotta sulla base delle emozioni suscitate da ciò che viene preso in esame per risolvere una parte del problema.

Eduard Hanslick.
Più comune negli ambiti della musica colta è l’argomentazione sulla tecnica, che tende a prevalere sia negli ambiti di legittimazione di una persona benestante che per la propria condizione economica di partenza o per le proprie conoscenze può permettersi di svolgere l’attività artistica senza far ricorso all’insegnamento, sia nel contesto dei concorsi. Soffermandoci per un momento sulla condizione dei concorsi si può considerare che nel più ottimista dei punti di vista essi creino competizione e continuo miglioramento in un numero crescente di persone. Ma quando si tratta della realtà concreta (e principalmente considerando gli aspetti economici) anche questo specchietto per le allodole decade: in una situazione in cui tutti studiano intensamente e dove il livello generale è molto alto prendono il sopravvento le logiche esterne, ad esempio all’esecuzione di un brano. Accade così di scoprire spesso che il vincitore del concorso è stato allievo di uno o più membri della giuria, o ha avuto alcune lezioni, o semplicemente vi sono rapporti di conoscenza, simpatia anche leggera o accordi di altro tipo. Questo non va a screditare una sua reale capacità ma rende l’idea dell’assurdità di un premio in denaro per una o poche persone relativo a una esecuzione che di unico non ha nulla se si ragiona lucidamente.
Sebbene la tendenza dell’uomo ad aggregarsi sia parte integrante del nostro comportamento naturale, dobbiamo impedire che essa condizioni le possibilità del singolo individuo di esprimersi artisticamente e di trarne il proprio sostentamento. Il concetto stesso di concorso, per quanto concerne la musica che è espressione della molteplice diversità di ogni essere umano, ha poco senso. Per citare il compositore Béla Bartòk, “la competizione è per i cavalli, non per gli artisti”. Una volta scardinate tali impalcature che contengono molti dei difetti per la quale la musica è appannaggio di pochi, veniamo a riflettere dunque sul problema in sé: i musicisti che vivono di concerti e di diritti di autore sono ben pochi rispetto a quelli che devono anche insegnare o che sono costretti ad insegnare solamente, o ancora che devono svolgere un lavoro differente. Gli innumerevoli studenti di musica che si approcciano alla materia desiderosi di contribuire al patrimonio artistico dell’umanità si riducono troppo spesso a rappresentare invece un pubblico proficuo per i pochi musicisti attivi. Queste sono evidenze non consolatorie della realtà, che vanno prese in considerazione al fine di migliorare e permettere un vero progresso nel settore musicale.
Più che prospettare una soluzione o una reazione a tutto ciò, invito i lettori a riflettere sul fatto che le motivazioni non vanno ricercate nel merito o simili argomentazioni concernenti in realtà semplice fumo. Come detto al principio di questo articolo, la realtà a cui si deve arrivare il più rapidamente possibile, è che l’umanità possa vivere esclusivamente di attività intellettuali e artistiche, e tutto questo può avvenire proprio grazie alla riflessione, e al pensiero intellettuale.
Alessandro Severa