Questo articolo è uscito sul periodico Reportage (anno 2017, numero marzo-giugno).
“Anche ad occhi chiusi sapresti che ti amo, ma guardami, che ti possa amare di più.” Claudius
La conseguenza dell’avvento del digitale sull’immaginario visuale è stata la trasformazione della sorpresa in ovvietà. Da quando lo scatto ha prodotto file che sono andati a riempire le memorie delle macchine fotografiche prima, e dei telefoni cellulari poi, le distanze tra i luoghi si sono ridotte, e l’inquinamento dell’immaginifico ci ha trasformati in osservatori apatici. Non c’è luogo aperto, e presto pure chiuso, che non sia o sarà su street view: l’originale è ridotto e fissato al momento del passaggio di un’auto che porta il globo dalle tante lenti; per l’esplorazione del mondo ci affidiamo supinamente ad un processo meccanico e involontariamente ripetitivo. Le città vengono etichettate con gli hashtag, ma non tutte. Si potrebbe dire che non c’è nulla di argentino nelle fotografie di Pulmón de Aires di Michele Molinari: non c’è né #tango né #BocaRiver, non si vedono #cupole e neppure #avenida, non c’è aroma di #cafè e nemmeno sapore di #mate. Ma invero questa è Buenos Aires. Il fotografo italiano non ha percorso le strade della metropoli per rinforzare il conosciuto, scattando controcorrente ha infatti puntato la macchina fotografica al cielo bordato da edifici che delimitano il suo cortile, il pulmón. Cosa c’è di più porteño di quest’ultimo? Tutti, o quasi, ne abbiamo uno. Un cortile spesso sporco, rumoroso, pieno di odori e di vicini, un luogo al quale non dedichiamo più che uno sguardo annoiato e di sufficienza, perché è un luogo banale e comune che ormai non riusciamo più a vedere come originale. Nella serie Pulmón de Aires, quattordici immagini non manipolate nei colori, l’occhio dell’artista ribalta i pregiudizi e ci insegna a guardare fuori da quella finestra sul retro.

Pulmon de Aires
Attraverso l’occhio di Michele Molinari l’umile pulmón assume una dimensione iconica, così come il cielo che solo occasionalmente ripete quello blanco y celeste della nostra bandiera. Anche il cemento scrostato degli edifici non è più così povero e sciatto: si trasforma nella tela di una quasi infinita palette di colori, mentre le vite dei nostri vicini, scandite dalla posizione delle tapparelle e dalle luci accese nelle abitazioni, marcano il perenne mutare del tempo reale. La scelta del soggetto, e lo sviluppo del progetto, hanno imposto al fotografo un protocollo severo. Per dodici mesi il cavalletto è rimasto nella stessa posizione sul terrazzino e, quando a qualsiasi ora del giorno e della notte e in qualsiasi situazione atmosferica l’artista si è emozionato alla luce mutata, ha ospitato la macchina fotografica, puntata verso la stessa inquadratura, pronta allo scatto. Come nel lavoro del fotografo californiano Richard Misrach, che ha beneficiato di un’icona già accettata dal grande pubblico, il Golden Gate, la narrazione visuale si è fatta potente nella costanza della ripetitività. Sulle rive dell’Oceano Pacifico come su quelle del Rio de la Plata, la passione dell’artista traspare dalle immagini e si trasforma in un amore sincero per il semplice e il quotidiano che solamente chi conosce a fondo il luogo può sentire, e riuscire a trasmettere.
“Juan Nahuel Junin”
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